C'è la storia di alcuni esponenti della famiglia mafiosa marsalese al processo "The Witness" terminato con la conferma delle condanne di primo grado emesse dal Tribunale di Marsala. Il procedimento in Corte d’appello a Palermo è scaturito dall’operazione che il 9 marzo del 2015 ha portato agli arresti, l’anziano pastore marsalese Antonino Bonafede, oggi 82 anni, vecchio “uomo d’onore”, Martino Pipitone, di 67, ex impiegato di banca, entrambi in passato già arrestati per mafia, Vincenzo Giappone, 55 anni, pastore, incensurato. Nella stessa operazione furono coinvolti Sebastiano Angileri e la moglie Via Maria Accardi. Il primo accusato di favoreggiamento e intestazione fittizia, la moglie solo di intestazione fittizia. Processati con l’abbreviato, il gup di Palermo li ha condannati a due anni (Angileri) e a un anno e 4 mesi (Accardi) di reclusione, escludendo l’aggravante di attività in favore della mafia.
Secondo la ricostruzione della Dda, i tre arrestati avrebbero cercato di riorganizzare la cosca mafiosa di Marsala. Secondo l’accusa, Antonino Bonafede avrebbe preso il posto del figlio, Natale Bonafede, in carcere dal gennaio 2003 con una condanna definitiva all’ergastolo, al vertice della locale famiglia mafiosa. All’anziano nuovo presunto “reggente”, nel gennaio 2015 sono stati confiscati beni per oltre 4 milioni di euro.
Le condanne – La Corte d’appello ha confermato i 16 anni di carcere per Antonino Bonafede, pur escludendone il ruolo di vertice in seno alla locale famiglia mafiosa. La pena per Bonafede è stata “complessiva”, 10 anni più i 6 già scontati per una precedente condanna per mafia. Confermata la condanna a 12 anni di carcere, sempre per mafia, per Vincenzo Giappone, che sarebbe stato il cassiere della “famiglia” e il “primo collaboratore” di Bonafede. Per Bonafede e Giappone, il Tribunale marsalese decretò anche tre anni di libertà vigilata dopo l’uscita dal carcere. I due imputati sono stati, inoltre, condannati a risarcire con 5 mila euro l’associazione antiracket e antiusura “Paolo Borsellino”, costituitasi parte civile. Anche per Martino Pipitone, difeso dagli avvocati Stefano Pellegrino e Vito Cimiotta, c’è stata la conferma della sentenza dell’8 giugno 2016 del Tribunale marsalese che lo aveva assolto dall’accusa di associazione mafiosa, condannandolo però a due anni di reclusione per intestazione fittizia di una società ad altra persona per evitare eventuale confisca da parte dello Stato.
L’inizio delle indagini e le dichiarazioni del boss De Vita - Le dichiarazioni rese dal boss ergastolano marsalese Francesco De Vita dopo il suo arresto diedero spunto per le indagini sfociate nell’operazione “The Witness”. De Vita, infatti, aveva deciso di iniziare a collaborare con la giustizia. Poi, però, la reazione di alcuni familiari, lo convinse a fare dietro front. Da ricordare l’episodio in cui De Vita doveva essere ascoltato in aula (ammesso che avesse voluto parlare), ma fu trasferito sullo stesso cellulare con cui arrivò uno degli imputati: Vincenzo Giappone. Il pm decise, perciò, di rinunciare all’interrogatorio. Francesco De Vita è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giovanni Zichittella (15 giugno 1992) nell’ambito del processo “Patti + 40”.
L’accusa – Secondo quanto ricostruito dall’accusa, Antonino Bonafede, insieme a Giappone “provvedeva alla raccolta del denaro provento di attività illecite, poi conferito al “mandamento mafioso” di Mazara e ai familiari di affiliati detenuti, come Giacomo Amato, uomo d’onore marsalese condannato all’ergastolo”. Martino Pipitone, considerato “esponente di rilievo della consorteria mafiosa marsalese” avrebbe esercitato la sua “sfera d’influenza nel centro storico”.
I profili degli arrestati e le intercettazioni - Martino Pipitone spende troppo nonostante la brutta situazione economica della famiglia, maneggia soldi. A lamentarsene nel 2008, sono Francesco Raia e Maurizio Bilardello, fratellastri, arrestati un anno dopo. E altri si lamentano anche del suo parlare “a matola”, a vanvera. Perchè critica il patteggiamento di Michele Giacalone: “Poi viene Martino, va parlando a matola perchè io ho fatto il patteggiamento...con uno schiaffo gli farei fare 3 giri nell’aria...qualcuno mi ha detto che non è vero che l’ha detto...ce ne andiamo o feo portiamo a questo là (si riferisce a Pipitone,ndr) se questo disse che quello che sto dicendo è menzogna resto io là...se questo sta diceria è menzogna, lasciamo a lui là…prendo e l’ammazzo…”. Pipitone, con Sebastiano Angileri, altro degli arrestati in The Witness, “firriano”, girano, scrive la Dda. Si “mette in mezzo” in diverse cose, come il passaggio della pizzeria Cellarius, in via Mazzini, dal vecchio al nuovo proprietario. E gli altri, si accorgono che Pipitone può avere il coltello dalla parte del manico, che sta assumendo un ruolo importante nell’ambiente malavitoso.
Vincenzo Giappone è un tipo sanguigno. Voleva mantenere un profilo basso, il massimo riserbo sui propri spostamenti, perchè, come diceva, conduceva “un’altra vita”. Ma anche lui è uno che conosce gente. Racconta di essere in buoni rapporti con Vito Gondola, esponente di Cosa nostra mazarese morto a luglio di quest'anno. Vito “Coffa”, come veniva chiamato negli ambienti malavitosi, fece una tirata d’orecchie a Giappone una volta.
Con Nino Bonafede, Giappone provvedeva anche a dare soldi ai familiari dei detenuti. C’è da dare soldi a Francesco Messina, arrestato per l’estorsione all’Eurofish nel 2009. Qui Giappone ha un altro battibecco, con Giovanni Indelicato, detto Ercolino, tra gli arrestati nell’operazione Peronospera II, e cognato di Vito Vincenzo Rallo per un periodo reggente della famiglia mafiosa di Marsala. “Ercolino” vorrebbe soldi, ma Giappone non glieli vuole dare. Se ne riparlerà quando esce dal carcere il cognato (i fatti risalgono al 2011, Rallo è in cella da 2 anni). “Buona ci finisce che lo saluto...iddu mi può richiamare solo su una cosa che io ci posso pure dare ragione sopra a Ciccio Messina che è in galera e magari qualche 500 euro ce li potrei mandare..ma l’altro...a sucare mi deve dare per direttissima”. Giappone con Bonafede avrebbe gestito la cassa della famiglia, ma c’è qualcuno che lo accusa di aver scroccato dei soldi. Lui si difende: “consegnai tutto alla lira compà. Morto di fame sono! Non me ne sono approfittato mai. Non posso accattare manco le sigarette”.