Sono tanti i commenti e le reazioni di fronte alla scomparsa del boss Totò Riina.
"La pietà di fronte alla morte di un uomo non ci fa dimenticare quanto ha commesso nella sua vita, il dolore causato e il sangue versato", afferma il presidente del Senato, Pietro Grasso, in un post pubblicato su Facebook, a proposito della morte di Totò Riina.
"Porta con sé molti misteri che sarebbero stati fondamentali per trovare la verità su alleanze - prosegue su Facebook -, trame di potere, complici interni ed esterni alla mafia, ma noi, tutti noi, non dobbiamo smettere di cercarla".
Scrive Grasso: «Totò Riina, uno dei capi più feroci e spietati di Cosa nostra, è morto. Iniziò da Corleone negli anni 70 una guerra interna alla mafia per conquistarne il dominio assoluto, una sequela di omicidi che hanno insanguinato Palermo e la Sicilia per anni. Una volta diventato il Capo la sua furia si è abbattuta sui giornalisti, i vertici della magistratura e della politica siciliana, sulle forze dell’ordine, su inermi cittadini, sulle persone che con coraggio, senso dello Stato e determinazione hanno cercato di fermarne il potere. La strategia di attacco allo Stato ha avuto il suo culmine con le Stragi del 1992, ed è continuata persino dopo il suo arresto con gli attentati del 1993. Quando fu arrestato, lo Stato assestò un colpo decisivo alla sua organizzazione. In oltre 20 anni di detenzione non hai mai voluto collaborare con la giustizia».
«La fine di Riina non è la fine della mafia siciliana che resta un sistema criminale di altissima pericolosità», ha detto il presidente della commissione
parlamentare antimafia, Rosy Bindi, ricordando che «Totò Riina è stato il capo indiscusso e sanguinario della Cosa Nostra stragista. Quella mafia era stata già sconfitta prima della sua morte, grazie al duro impegno delle istituzioni e al sacrificio di tanti uomini coraggiosi e giusti».
«Non possiamo dimenticare quella stagione drammatica - aggiunge la presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi -, segnata dal delirio eversivo di un uomo spietato, che non si è mai pentito dei suoi crimini efferati e non ha mai collaborato con la giustizia. A noi resta il dovere di cercare le verità che per tutti questi anni Riina ha nascosto e fare piena luce sulle stragi che aveva ordinato. La fine di Riina non è la fine della mafia siciliana che resta un sistema criminale di altissima pericolosità».
«Non gioisco per la sua morte, ma non posso perdonarlo. Come mi insegna la mia religione avrei potuto concedergli il perdono se si fosse pentito, ma da lui nessun segno di redenzione è mai arrivato». Così Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso dalla mafia ha commentato la morte del boss Totò Riina. «Per quello che è stato il suo percorso mi pare evidente che non abbia mai mostrato segni di pentimento», ha aggiunto. «Basta ricordare le recenti intercettazioni in cui gioiva della morte di Giovanni Falcone», dice riferendosi alle conversazioni registrate in carcere tra Riina e un compagno di detenzione in cui il capomafia rideva ricordando di aver fatto fare al magistrato «la fine del tonno».
«Per quello che è stato il suo percorso mi pare evidente che non abbia mai mostrato segni di pentimento», ha aggiunto.
Questo il commento di Daniele Biacchessi, Radio 24:
Totò Riina diceva che Paolo Borsellino lo aveva tenuto sotto controllo, perfino intercettato al telefono, e che per colpirlo bisognava fare in modo che lo stesso magistrato azionasse inconsapevolmente il telecomando posto nel citofono dell'abitazione della madre, in via d'Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992.
A Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992, "U curtu" si vantava di avergli fatto la fine del tonno, alludendo alla visita del magistrato all'isola di Favignana durante i giorni della mattanza.
Riina si compiaceva perché il 29 luglio 1983, a Palermo, in via Pipitone Federico, a Rocco Chinnici gli aveva fatto fare un volo. E più recentemente, ai magistrati impegnati nel processo Stato-mafia gli avrebbe macinato le ossa.
Riina era un duro, uno spietato anche con i suoi picciotti, dotato di una intelligenza criminale unica, di una capacità di organizzazione militare perfetta.
Era dunque uno stratega della nuova strategia della tensione mafiosa.
Tra il 1992 e il 1993, Riina insieme a Messina Denaro, Provenzano, Bagarella, Brusca, i fratelli Graviano alzò il livello di scontro contro lo Stato con le stragi di Capaci, via d'Amelio, via Fauro a Roma, via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano, contro le basiliche di Laterano e Velabro a Roma.
Poi con funzionari infedeli dello Stato avviò la trattativa che si concluse con la fine dello stragismo.
Se ne va un soldato del terrore che aveva compreso bene la regola fondamentale per la sopravvivenza in un vertice criminale: l'assoluto silenzio.
E quel silenzio lo ha portato ad una morte naturale.
Scrive invece Il Foglio: "In occasione della morte di Totò Riina gran parte della stampa insiste sui “misteri” di cui sarebbe avvolta la sua figura. In realtà non c’è nessun mistero: nella sua ambiziosa scalata alla conquista di un ruolo dominante nelle criminalità organizzata, Riina ha scelto la strada della sfida aperta allo Stato, la via delle stragi, e lo Stato ha risposto".