Tocca al Presidente Mattarella ridare speranza al popolo del Belice
di TANINO RIZZUTO* - Belice, cinquanta anni dopo. Mezzo secolo da quella drammatica e sconvolgente notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 quando un terremoto devastante ha distrutto i paesi della Valle del Belice, ha ucciso tanti innocenti sotto le macerie prima, nelle tende e nelle baracche dopo.
Quella notte ha cambiato per sempre questo pezzo di Sicilia. Avevo 18 anni. Andavo al Liceo Classico di Salemi ed ero impegnato, già da due anni, con Danilo Dolci e Lorenzo Barbera per dare alla Valle un piano di sviluppo economico, per fermare l’emigrazione dei giovani che stava spopolando i paesi, per dare speranza ad un popolo che sopravviveva con una agricoltura povera e arretrata, per liberare il Belice dall’oppressione della mafia.
Era una fredda domenica quando arrivarono le prime scosse all’ora di pranzo. La prima alle 13,28, la seconda, subito dopo, alle 14,15 e poi una terza alle 16,48 più forte con i primi danni e i primi crolli.
Tra la gente anziana c’era il ricordo lontano del catastrofico terremoto di Messina del 1908 con più di centomila morti. Ma qui nel Belice nessuno era preparato al terremoto. Nessuna carta sismica. Nessun piano di emergenza. Nessuna esercitazione su come comportarsi nel caso la terra inizi a tremare. Non c’era la protezione civile.
Così dopo quelle prime scosse non sapevamo che fare, a chi rivolgerci. Tutti in attesa, spaventati e smarriti. Sperando che le scosse non si ripetessero. Col passare delle ore, però, la paura cresceva. Vedevamo gli animali molto agitati. Faceva freddo. C’era la neve sulle colline.
Il colpo mortale arrivò in piena notte. Furono due, terribili. Il primo alle 2,33, molto violento. Il secondo, mezzora dopo, alle 3,01. E fu violentissimo, devastante come una bomba atomica. Ancora oggi c’è chi ricorda quell’infinito boato che arrivava dalle viscere della terra e distruggeva ogni cosa mentre noi fuggivamo dalle case, nella notte buia, alla ricerca di una spazio sicuro. Per centinaia di persone quelle povere case di tufo si trasformarono in una trappola mortale.
Interi paesi rasi al suolo, altri feriti a morte.
Quella notte iniziò una lunga storia ancora oggi non conclusa. Una storia di ritardi sin dalle prime ore per i soccorsi, di burocrazia, di forti lotte popolari, di tante promesse non mantenute, di tanti tradimenti dello Stato e della Regione.
Una storia di identità distrutte da piani vuoti di enti che decidevano a Roma o a Palermo sulla pelle della gente.
Una storia di promesso, mancato e negato sviluppo e di scandali dalle 22 mila baracche di lamiera e legno che hanno ospitato terremotati per più di 40 anni (dei veri “campi di concentramento” come li definì Leonardo Sciascia in un memorabile reportage sul giornale L’ORA) alla scelta delle aree su dove costruire le nuove case, di mani della mafia sulla lunga e contrastata opera ricostruzione, di opere elefantiache e inutili che hanno cementificato zone alberate.
Una storia di nuova emigrazione. Non dimenticherò mai quelle tende delle Ferrovie dello Stato che regalavano i biglietti (di sola andata) per andare al Nord. Non dimenticherò mai quei passaporti rilasciati a vista per mandare intere famiglie di terremotati in America, in Canada, in Germania. Sono partiti a migliaia, i nostri paesi sono stati dimezzati dal terremoto e dall’emigrazione forzata. Non sono più tornati.
La Valle del Belice che si presenta agli occhi del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, siciliano di Castellammare del Golfo, è una valle ancora ferita ma che ha una grande voglia di riscatto, di futuro. In questi 50 anni il popolo del Belice non si è mai arreso. Ha combattuto. Ha conquistato. Spesso è stato tradito.
Sì, ci sono le case. Ci son volute venti leggi dello Stato per ottenere i finanziamenti per la ricostruzione, fatta col contagocce, con ritardi inaccettabili e colpevoli. E’ stato un fallimento dello Stato. La lezione del Belice è servita, almeno, per non ripetere gli stessi errori in altre zone terremotate d’Italia.
Dopo 50 anni mancano ancora 300 milioni per completare la ricostruzione del Belice! Ma i nuovi paesi non hanno un’anima, hanno perso la loro identità, la loro storia. Ci sono le case, spesso vuote. Non ci sono più i giovani, perché per loro non c’è un futuro nella Valle del Belice. I vecchi centri storici sono completamente svuotati, abbandonati, senza vita come quello di Salemi uno dei borghi più belli d’Italia. Fu una scelta scellerata quella dell’Ises di Roma di imporre l’abbandono dei vecchi centri storici danneggiati, come quelli di Poggioreale e Salaparuta, per ricostruire i nuovi paesi a chilometri di distanza. Si è persa la storia di secoli, la memoria di un popolo.
C’è l’autostrada Mazara del Vallo-Palermo. Con la lotta abbiamo conquistato che i lavori iniziassero da Mazara. Doveva essere il volano dello sviluppo della valle. Ci volevano dare il quinto centro siderurgico (poi dirottato in Calabria e mai realizaato), ma ci siamo, invece, battuti per dare sviluppo all’agricoltura e al turismo. Immaginavamo quell’autostrada piena di camion carichi di prodotti lavorati della nostra buona agricoltura in viaggio verso i mercati del Nord. Immaginavamo capannoni lungo l’autostrada con aziende per la lavorazione e la valorizzazione dei nostri prodotti agricoli.
Invece l’autostrada ha sostituito la vecchia statale e solo d’estate, quando vengono i turisti, è un po’ più trafficata.
Cinquanta anni dopo la Valle del Belice combatte e sogna ancora la rinascita, come ha dichiarato Nicola Catania, sindaco di Partanna e presidente del Comitato dei Sindaci della Valle. “La rinascita è a portata di mano. Le attività produttive sono state rilanciate, l’agricoltura è stata modernizzata. Sono stati promossi i beni culturali e aperti nuovi musei come luoghi della memoria civile. Il Belice chiede solo di chiudere con poche risorse la pagina del terremoto. Vuole cancellare le ultime ferite e invoca condizioni di sviluppo…”.
Sì la Valle del Belice si batte ancora oggi - come 50 anni fa - per un piano strategico di sviluppo, per un rilancio socio-economico. Ci vogliono infrastrutture e servizi. Ci vuole più attenzione a questa parte d’Italia che ha pagato un prezzo altissimo: 400 morti, 1.500 feriti, più di 100mila senza casa.
Tocca al Presidente Mattarella ridare speranza al popolo del Belice che crede ancora in un futuro di sviluppo, senza più emigrazione e con tanto lavoro per i suoi giovani.
*dal 1968 al 1980 giornalista del L’ORA di Palermo; per 35 anni direttore di tre quotidiani: La Provincia Pavese di Pavia, Il Secolo XIX di Genova e la LIBERTA’ di Piacenza