Tante le reazioni sulle richieste di pena per il processo sulla presunta trattativa Stato - mafia (ne abbiamo parlato ieri).
La Procura di Palermo ha chiesto la condanna a 15 anni di carcere per il prefetto Mario Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Sisde, imputato di minaccia e violenza a corpo politico dello Stato. Non solo: chiesti anche 12 anni e 10 anni per gli altri due ufficiali dei carabinieri coinvolti, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, e a 12 anni per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Inoltre, la Procura ha chiesto la condanna a sei anni di carcere per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino imputato di falsa testimonianza.
Le altre richieste dei giudici palermitani. La Procura di Palermo poi ha chiesto rispettivamente la condanna a 16 e 12 anni di carcere per i boss Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. Mentre, per il pentito Giovanni Brusca, che rispondeva dello stesso reato, i pm hanno chiesto l’applicazione dell’attenuante speciale prevista per i collaboratori di giustizia e la dichiarazione di prescrizione delle accuse.
Chiesta invece la prescrizione per le accuse di concorso in associazione mafiosa contestate a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo. Ciancimino rispondeva anche della calunnia dell’ex capo della polizia De Gennaro: per questo reato sono stati chiesti 5 anni di carcere. Per i pm le condotte di concorso in mafia sarebbero cessate con la cattura del boss Riina, a gennaio 1993, per questo la richiesta di dichiararle prescritte.
Polemico il pm Di Matteo. Il giudice ha dichiarato: “La mia applicazione a questo processo termina qui. E’ un processo che ho seguito dall’inizio e che ha portato tante polemiche. Ho capito subito che avrei pagato un costo. Hanno piu’ volte detto che le nostre azioni erano caratterizzate da finalità eversive. Nessuno ci ha difeso. Era tutto in conto, come sempre quando non ci si limita a tenere un profilo basso, ma si mira alla ricerca delle causali complesse e delle strategie come quella che mise in campo Cosa nostra che ricattò lo Stato con la complicità di pezzi delle istituzioni”.
Scrive Massimo Bordin sul Foglio:
Può colpire la pesantezza della pena, 15 anni di reclusione, appena uno in meno di quelli richiesti per Leoluca Bagarella, feroce pluriassassino oltre che capomafia, ma quello che deve fare davvero riflettere nella richiesta della procura di Palermo nei confronti del generale Mario Mori è il giudizio che la pubblica accusa ha fissato, nella sua fluviale requisitoria, a proposito della più importante operazione guidata dall’allora capo operativo del Ros dei carabinieri. La cattura di Riina, ovvero la risposta dello Stato alla sfida sanguinaria delle stragi di Capaci e via D’Amelio, diventa nella narrazione dei magistrati palermitani “una tessera di un puzzle che gronda sangue”, un pilastro di una costruzione infame. Questo ha detto ieri, nella sua conclusione il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, questo ha articolato nel suo ultimo intervento il pm Antonino Di Matteo. L’arresto del capo dei corleonesi diventa una vittoria della mafia, un passaggio decisivo di una trama ordita dai criminali in combutta con lo Stato, un remake del caso del bandito Giuliano come se da allora nulla fosse cambiato nella storia del nostro paese e nei rapporti fra mafia e politica. Una ricostruzione storicamente assurda e giudiziariamente temeraria, visto che per affermarla in sentenza si dovrebbero ribaltare cinque sentenze che l’hanno smentita nei suoi punti chiave. E’ improbabile che si arrivi a un esito del genere ma è innegabile che sarebbe figlio dei tempi che stiamo vivendo, uno zeitgeist che gli iniziatori della inchiesta, i pm Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato, hanno contribuito a costruire nel corso degli anni. Un complicato escamotage procedurale fa sì che a giudicare sia, insieme ai togati, una giuria popolare che potrebbe incarnare lo spirito del tempo a dispetto delle risultanze processuali che nulla hanno portato alle tesi dell’accusa. E’ l’unico rischio che corre la difesa. Per tutti, comunque vada, c’è n’è uno aggiuntivo. La discesa in politica del dottore Di Matteo.
Qui potete ascoltare l'udienza di ieri:
La realtà ricostruita dai pubblici ministeri siciliani – con Teresi i colleghi Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia – è quella che ricostruisce quanto accaduto dagli attentati di capaci e via D’Amelio del 92 fino alle bombe del ’93 in continente e al fallito attentato allo stadio Olimpico di Roma del 1994. E’ dopo questi fatti sanguinosi che, per la procura, esponenti dello Stato si sarebbero mossi contattando la mafia. «La strategia stragista di Cosa nostra che ricattò lo Stato con la complicità di uomini dello Stato», per il pm Di Matteo.
Ad avviare il dialogo sarebbero stati gli uomini dei Ros che, per i pm, «avviarono una prima trattativa con l’l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ’papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi».
A fare da tramite con la mafia, secondo la procura, sarebbe stato l’ex senatore di Forza Italia, ritenuto referente politico dei boss dopo l’arresto del vecchio interlocutore dei carabinieri, l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino. «Risulta provato – ha spiegato il pm Del Bene – che gli incontri tra esponenti mafiosi e Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare sia prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche».
«Dell’Utri ha fatto da motore, da cinghia di trasmissione del messaggio mafioso», è l’accusa dei pubblici ministeri. «Il messaggio intimidatorio fu trasmesso da Dell’Utri e recapitato a Berlusconi». E ancora:«Nel 1994, Dell’Utri riuscì poi a convincere Berlusconi ad assumere iniziative legislative che se approvate avrebbero potuto favorire l’organizzazione».
SGARBI. Vittorio Sgarbi ha dato mandato al suo legale Giampaolo Cicconi di querelare il Pm Francesco Del Bene che ieri a Palermo, durante la requisitoria nel processo sulla presunta trattativa stato-mafia, ha «in maniera del tutto arbitraria e dunque senza alcun riscontro, messo in relazione le civiche battaglie di Sgarbi - si legge in una nota dell’ufficio stampa del critico d’arte e assessore regionale ai Beni culturali in Sicilia - in materia di giustizia (ed in particolare contro gli abusi dei pubblici ministeri sulla carcerazione preventiva e sulla contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa) durante gli anni in cui conduceva 'Sgarbi quotidiani', con una presunta strategia concordata tra Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano».
«Il Pm Del Bene - dice Sgarbi - dovrà rendere conto di questa palata di fango. Una tesi senza alcun fondamento, buttata lì, in mezzo alla requisitoria, quasi come ammonimento a chi osa criticare l’operato di Pm che non cercano fatti o prove, ma suggestioni da dare in pasto alla stampa. Pensavo che l’opera di 'mascariamento', assai di moda in Sicilia nei confronti dei nemici, fosse solo una prerogativa della mafia: prendo atto che così non è».
«Ricordo che queste accuse giungono, come un vero e proprio avvertimento, a pochi giorni dalle mie forti critiche proprio ai Pm che sostengono l’accusa in questo processo - aggiunge - costruito su teoremi e ricostruzioni farlocche. Ricordo a Del Bene di essere stato in passato minacciato pesantemente da criminali poi pentiti, tra i quelli Melluso, quello del caso Tortora. Sappia, Del Bene, che io non dimentico le canagliate. Mai come adesso - conclude Sgarbi - sento il dovere di ricordare le parole di Agnese Borsellino rivolte a me qualche anno fa nel corso di una sua visita a Salemi: 'Come siciliana sono felicissima della scelta di Sgarbi; vedo nel lavoro di Sgarbi un’azione missionarià».