Per raccontare quella che va sotto il nome di “trattativa stato-mafia” basterebbe leggere American Tabloid di James Ellroy, il mito vivente del noir, e un vecchio articolo di Stefano Rodotà del 2004.
Ecco l’intro di Ellroy:
“L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto”.
Ed ecco la penna di Rodotà:
“Vi è una violenza della verità che la democrazia ha sempre cercato di addomesticare, per evitare che travolga le stesse libertà democratiche”.
Uomini così opposti e parole così coincidenti. L’Italia, come l’America di Ellroy, non è mai stata innocente, non si può essere vergini se si è andati a letto con i Papi e gli Imperatori: è stato necessario però santificarli, togliere dai loro paramenti gli schizzi di veleno, ripulirli per farci vivere in pace, anestetizzati. E trasformarci in moralisti da due soldi.
Il giurista si chiede: in uno Stato quanto è possibile far sapere ai cittadini? Ci sono verità che non devono essere rivelate? Lo scheletro dell’esercizio del potere va fatto vedere in chiaro?
Oppure – domanda Rodotà – di fronte alla verità del Potere i cittadini si rivolterebbero travolgendo le libertà democratiche, tra le quali ci sono anche quelle di mentire, di non essere torturati per ottenere la verità, di non pensarla tutti allo stesso modo?
Dice Rodotà, “può la democrazia essere identificata con l’ assoluta trasparenza, con l’ obbligo di dire la verità in ogni caso e ad ogni costo?”
L’America di Ellroy, quella di American tabloid, quella in cui i Kennedy erano una famiglia corrotta e il vero potere risiedeva nel ricatto e del sangue, in un manipolo di agenti sotto copertura, assassini coraggiosi e cinici capaci davvero di cambiare la grande storia e molto più della prosopopea kennediana.
Ellroy racconta quella verità fuori scena, ributtante e adrenalinica. Mentre Rodotà ci chiede, “ve la sentite di sapere la verità su come uno Stato governa?”
Quella che si è combattuta in Sicilia è stata una guerra sporca, una guerra di confine, sangue e merda.
Chiamatela come volete, anime belle, pacifisti senza se e senza ma. Ma è stata una guerra.
Una guerra sporca che alla fine ha prodotto il più lungo periodo della storia mafiosa senza stragi, attentati e omicidi eccellenti. Una guerra sporca ha patti e tradimenti continui, veloci e immorali.
Quanta innocenza siamo disposti a perdere?
I Ros dei Carabinieri sono un po’ come gli anti-eroi di Ellroy. Si sono sporcati le mani, hanno fatto un dirty job, senza limiti con un obiettivo principale: non la fine della mafia ma la fine della sua epopea stragista.
Ai confini non si fanno sconti, non ci sono regole morali e giuridiche che regolano gli spari in prima linea, nessuna cortesia all’uscita. Sono stati commessi crimini ed errori? Certamente sì. Borsellino muore per la trattativa, quella che gli fa dire in lacrime “un amico mi ha tradito” pochi giorni prima di finire ucciso.
Luigi Ilardo era il primo ed unico caso di un boss infiltrato nel cuore di Cosa nostra. Un insider come quelli dei film che porta gli investigatori sull’uscio di casa di Bernardo Provenzano. Ma nessuno bussa a quella porta. E Ilardo finisce tradito – da uomini di Stato – e ucciso. Vogliamo ancora parlare del covo di Riina? O della verità impupata su via D’Amelio? O dei pentiti con licenza di uccidere?
Eppure c’è una verità di fondo: i Ros pur muovendosi spesso come un corpo separato dello stato – e un’autonomia investigativa da fiction tv – non hanno agito a favore di Cosa nostra, quella semmai è una conseguenza non voluta. Hanno agito per lo Stato, a suo nome.
Ora le cose sono due: o lo Stato si prende la briga di proteggere con il segreto quelle condotte (come è avvenuto anche recentemente per il caso Abu Omar) o li molla.
Tertium non datur.
Dobbiamo abituarci che la verità giudiziaria non è quella storica, e viceversa.
Piaccia o meno, lo stesso vertice Ros è stato assolto ben due volte su una vicenda che la sentenza recente giudica invece uno dei passaggi chiave della trattativa, il mancato arresto di Provenzano. E’ chiedere troppo che i tribunali italiani almeno su questioni tanto delicate non arrivino a questo impasse?
Quanto incredibile deve sembrare il fatto che una sentenza assolva e un’altra condanni giudicando diversamente lo stesso episodio? E come si fa a scrivere la storia su Marcello Dell’Utri se una sentenza dice che ha trattato con la mafia fino al ’92 e non oltre e un’altra afferma che lo fece per almeno altri due anni?
La politica ipocrita
La politica nei momenti di crisi lascia liberi i suoi segugi, gli uomini al fronte: non gli dicono “mi raccomando rispettate le regole”, gli viene chiesto di fare il possibile, costi quel che costi.
E’ avvenuto nel caso Moro, nel rapimento Cirillo e in quello Dozier. In mille altre occasioni.
Gli americani hanno trattato con il gotha della mafia americana: lo hanno fatto in nome di un’emergenza e quella trattativa è costata carissima nel libro nero della storia.
E’ lo sbirro che propone al ministro, non è il contrario. E il ministro non vuole sapere nemmeno come e cosa fa la divisa, basta che si risolva il problema. Ora immaginatevi chi convinceva chi – mentre nella guerra sporca di Palermo cadaveri si sommavano a cadaveri – tra gli investigatori scafati e il Ministro di giustizia Conso, persona integerrima, tecnico sopraffino della cultura giuridica ma privo di quella malizia politica che sarebbe stata utilissima in quel momento.
Pensare che Conso abbia solo immaginato di trattare con la mafia è inimmaginabile: ma di certo il professore si convinse ad allentare a oltre 300 mafiosi il carcere duro. E nelle guerre non ha importanza perché fai le cose ma come esse vengono percepite dal tuo nemico. Chi aveva il polso delle carceri in quel momento sapeva che la situazione era esplosiva all’interno del circuito penitenziario.
I Ros nella Palermo del ’92-’93 ricordano il Mister Wolf di Tarantino, risolvono problemi. Il come non ha importanza per chi li investe di un potere operativo quasi assoluto.
Ora il problema è stato risolto. Ci sono stati morti, tradimenti e immani tragedie. Di quella stagione sappiamo molto, ma le verità indicibili – quelle che secondo Rodotà potrebbero minare il senso comune di appartenenza alla comunità democratica, la violenza della verità appunto – difficilmente le vedrete sui media ufficiali: nessuno chiederà scusa perché la tortura è diventata per anni strumento corrente nelle carceri, nessuno ha chiesto scusa per la mancata protezione del giudice Borsellino o per aver portato in aula una verità falsa su via D’Amelio.
Ma quel problema – le stragi, le bombe per le strade – lo hanno risolto.
Alla fine nei libri di storia rimarrà una verità di fondo: Riina ha perso la sua partita più importante, ha causato una debacle storica per la sua organizzazione e chi lo ha sostituito non ha né voluto né saputo rimettere in piedi il giocattolo, la guerra allo Stato.
Che tutto rimanga nelle mani di un manipolo di uomini in divisa – che possono essere eroi e poi venire scaricati l’indomani – lo dimostra la realtà . Per 50 anni Cosa nostra è stata sostanzialmente impunita. E’ avvenuto perché avevamo gli sbirri più scarsi del mondo? No, anzi. Nell’arco di pochi anni quegli stessi corpi di polizia hanno decimato una delle organizzazioni più potenti al mondo. E’ in questo iato che è successo qualcosa. Si sono saldate volontà politiche – sopratutto di quei politici come Martelli finito nel libro nero di Riina & C. – e lasciate mani libere agli organi investigativi.
Nella guerra sporca di Palermo c’è stato tutto e il contrario di tutto. C’è la cattura di Riina e le inspiegabili scelte di non perquisirne il covo, ci sono decine di latitanti catturati e incredibili incapacità nella caccia a Provenzano che verrà preso 14 anni dopo Capaci, un’enormità.
E’ accaduto che sbirri di grande professionalità non abbiano perquisito un covo o abbiano cercato la verità su via D’Amelio nei bassifondi della Palermo di Ciprì e Maresco fatta di matti,transessuali e canazzi di bancata, e non invece ai piani alti di Cosa nostra.
C’è l’avvio di una stagione dell’antimafia popolare – alimentata anche da un sentimento di profonda vergogna collettiva – che si chiuderà nel cupio dissolvi di parole vuote e miti abbattuti, di inefficienze che bestemmiano i talenti generosi di tanti servitori dello Stato.
Mentre l’Italia glorificava la sapienza investigativa – nel rispetto della legge – di Falcone e Borsellino, con i loro cadaveri ancora caldi venivano fondate le Guantanamo italiane, dove decine di mafiosi e sospetti tali subivano torture, vessazioni, pressioni. Anche quella fu una trattativa: o la smettete e parlate o continuiamo con il trattamento.
La guerra sporca di Palermo è avvenuta anche tra partiti in divisa – quello della Polizia e quello dei Carabinieri – e loro sotto-fazioni. E’ avvenuta nella magistratura. Ognuno con il proprio pentito di fiducia, con i suoi confidenti e i suoi metodi.
E’ avvenuta sui media, con i cronisti divisi tra chi faceva l’addetto stampa della Polizia e chi il megafono dei Carabinieri.
Anche qui ci sono verità indicibili: come quella di due eccezionali penne che hanno raccontato la guerra sporca che a distanza di anni finiscono interrogati in Procura. Erano loro ad aver propagandato le infamità del Corvo contro Giovanni Falcone e a precisa domanda rispondono di non ricordarsi chi li imbeccò, chi li utilizzò come megafono per preparare la scena mediatica all’attentato -fallito o rientrato, non si è mai capito – dell’Addaura contro i giudice. Può un giornalista scegliere di tacere la propria fonte di fronte ad un evento così drammatico? Quanto sarebbe importante sapere chi, dall’interno degli apparati, volle colpire Giovanni Falcone tre anni prima di Capaci utilizzando il diritto di cronaca?
Negare che la politica, non tutta ovviamente, abbia trattato con Cosa nostra è impossibile. Paolo Borsellino chiarì la questione con poche parole, queste: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
Che un politico o un indagato mentano ci può stare. Che un ufficiale che ha giocato un ruolo border-line non voglia raccontare i suoi metodi e le protezioni di cui ha goduto è fisiologico.
Quello che è difficile digerire è la strumentalizzazione politica di chi non deve sommare funzioni di indagatore e nello stesso tempo di politico. Strumentalizzare è mestiere da politici, non da giudici o da Pm.
La peggiore strumentalizzazione l’ha fatta – ecco le conseguenze della guerra sporca di Palermo – proprio il pm simbolo del processo sulla trattativa, Nino Di Matteo.
Non può passare sotto silenzio la sua partecipazione ad una convention politica organizzata da un’associazione privata collaterale ad un partito e diretta dal leader di quel partito, mentre si era appena chiuso proprio il processo che lo aveva visto accusare pezzi di prima e seconda repubblica.
Giovanni Falcone o Paolo Borsellino sarebbero mai andati alla vigilia della sentenza del maxiprocesso al congresso di un partito o ad una sua iniziativa pubblica?
Esponi la procura e il tuo lavoro alle logiche della lotta politica. E’ una questione di igiene costituzionale.
La politica – e l’esposizione mediatica – è una bestia che bisogna saper domare. Non può passare sotto silenzio che nelle sue accuse – in diretta tv – contro il Csm per non aver tutelato i Pm di Palermo, Di Matteo oggi dimentichi che il rappresentate del CSM in quota Movimento cinque stelle abbia votato contro la sua richiesta di trasferimento alla Procura nazionale antimafia. O che abbia votato per il vertice della Procura di Palermo in spregio ad ogni criterio di esperienza e competenza, come a suo tempo lo stesso Pm denunciò. Il giudice non può avere una memoria selettiva: non può salvare alcuni e condannarne altri, per simpatia o per convenienza politica.
La lotta alla mafia è ammaliata da uno strano sortilegio, non consente a nessuno di rimanere immacolato, immune dalle fiamme.
E’ il destino di tutte le guerre sporche dove le divise dei contendenti si mischiano, i confini tendono a sparire, i metodi vanno tenuti segreti e non si tende ad una vittoria, ma ad un nuovo equilibrio.
Nicola Biondo