A maggio si celebrano Maria e tutte le mamme Una festa che deriva dal culto più ancestrale: quello che, da Iside a Venere fino alla madre di Gesù, spinge il mondo (maschile) a invocare divinità femminili Uomini turbati dalla musica quando sentono una calda voce femminile nera cantare un blues. Uomini rapiti dalla scrittura che non sanno dare altro nome al simulacro di donna che li ispira se non quello di “musa”. Poeti, come Keats e Leopardi, che dialogano con il volto triforme della luna. Uomini che attraversano ogni giorno una folla muta di madri divine dal capo velato che li guardano nei musei, ai trivi delle strade, rinserrate nelle edicole sacre, calamitate sui cruscotti delle auto. Uomini che dialogano con altri uomini in una seduta psicoanalitica mentre aleggia su di loro la presenza costante di un complesso di natura femminile. Chi sono questi fantasmi di donne che popolano la vita dei maschi? Sono tanti e diversi? Oppure è uno solo, quello della Madre Eterna? Considerata l’esperienza degli esseri viventi di questa terra, dov’è nell’animale femmina che fisicamente si forma la vita, credere in un principio creatore non maschile, com’è il dio del cristianesimo e già dei giudaismo e poi dell’islam, ma femminile, è stato in origine più immediato, più intuitivo.
Anziché a un Dio Padre, l’umanità è stata a lungo devota a una Dea Madre. Nei miti delle culture da cui nasce la nostra — mesopotamica, egizia, greca, italica, romana — il volto mutevole di questa dea emerge in diverse personificazioni e prende molti nomi: IshtarAstarte-Afrodite–Venere; Ecate triforme, come tre sono le fasi della vita e tre quelle della luna; Demetra-Cerere e Persefone-Proserpina; Cibele, Artemide-Diana. «Progenitrice della natura, signora degli elementi, / germoglio dell’inizio di tutti i tempi, somma potenza, / regina dei Mani, prima tra i celesti, / unico volto di tutti gli dèi e di tutte le dee, / che col cenno del suo capo comanda / alle luminose sommità dei cieli, / ai freschi venti del mare / e al fecondo silenzio sotterraneo: / la sua unica volontà venera in molti modi, / secondo differenti usanze e molti nomi, / tutta la terra». Non è una preghiera rivolta a una delle divinità femminili pagane elencate sopra, ma un brano tratto da una liturgia mariana medievale. Perché se il cristianesimo impernia il suo credo su un unico Dio Padre, è anche l’unica tra le religioni del libro a lasciare sopravvivere, nella sua versione ortodossa e cattolica, la grande e ancestrale tradizione della divinità femminile. Nella figura della Madre di Dio — la Theotokos bizantina, su cui i primi concili ecumenici hanno tanto dibattuto — convergono molti tratti della Grande Madre e delle varie divinità femminili in cui si è espresso il suo culto. È un culto principalmente lunare. Perché nel grande ricamo astrale in cui tutte le antiche religioni dispiegano i loro miti e i loro dèi la divinità femminile in cui convergono tutte le altre è la Luna: La Dea Bianca di Robert Graves, la Casta Diva «che inargenta queste sacre antiche piante» della Norma di Bellini. Poiché il ciclo naturale delle messi implica la morte e la rinascita del seme, la Grande Dea è sempre connessa a culti legati al ciclo morte-rinascita, e questo ciclo è simboleggiato dalla Luna fin da tempi antichissimi. In seguito con la divinità lunare si identificheranno principalmente Diana, la dea che reca la falce di luna in fronte nell’iconografia classica come ancora nei quadri rinascimentali e barocchi, e una divinità di origine egizia, Iside, che diventerà la Madre Nostra per eccellenza della grande e unificata cultura mistico-religiosa, ma anche filosofica, poetica e letteraria, dell’impero romano. A lei Lucio Apuleio, al termine de Le metamorfosi, dedicherà la sua preghiera: «Regina del cielo — che tu sia Cerere la ristoratrice madre delle messi, o che tu sia invece Venere celeste, che ai primi esordi delle cose ha composto la discrepanza dei sessi creando Amore; o che tu sia Artemide, la sorella di Febo Apollo; o che tu sia la tremenda per notturne grida Proserpina, che con il triforme aspetto reprime le sortite degli spettri e tiene serrati i battenti degli inferi — Tu che con la tua luce femminile illumini tutte le mura e con i tuoi raggi umidi nutri i lieti semi e in rivoluzioni solitarie dispensi la tua fioca luce, con qualunque nome, con qualunque rito, sotto qualunque aspetto sia lecito invocarti, assistimi nelle mie sventure». Erano già propri di Iside gli epiteti che lungo i secoli sono stati attribuiti alla Madonna: “Santa Vergine”, “Regina del Cielo”, “Dispensatrice di Grazie”, “Regina del Mare”, “Stella Mattutina”, “Salvatrice”, “Madre Misericordiosa che ascolta le preghiere”. E ricorda da vicino l’iconografia della Madonna la descrizione visiva che Apuleio dà dell’epifania di Iside, con i lunghi capelli e il manto fluente disseminato di stelle. Gli studiosi di icone bizantine hanno ricollegato la rappresentazione di Iside lactans, ossia di Iside che allatta Horus, a una tra le più diffuse tipologie delle icone mariane, quella della Vergine Galaktotrophousa, che allatta al seno il Bambino Divino. Ad accomunare il culto della Madonna a quello delle figure che nella religione classica ha assunto la Grande Dea è quindi l’adorazione di una coppia sacra madre-figlio, come nel caso di Iside, o anche madre-figlia, come nel caso di Demetra e Proserpina. È lo status di Mater Dolorosa, che accomuna sia Demetra in lutto per la figlia rapita nell’Ade - che periodicamente risorge insieme alle messi nella stagione primaverile (un mistero al cuore dei misteri eleusini) - sia Iside (il cui mito stringe in un unico nodo simbolico la coppia sposa/sposo e quella madre/figlio). A strutturare la figura della divinità femminile è questo ulteriore e saliente attributo: il compianto per il figlio perduto, il mistero della sua resurrezione. Il fatto che il cristianesimo faccia sopravvivere nella figura della Madre di Dio la grande tradizione della divinità femminile, e il fatto che nella Madonna convergano i tratti della Grande Madre e delle varie divinità in cui si è espresso il suo culto, non fa che dare spessore e profondità di significati alla figura della Vergine, ai suoi attributi, alla sua iconografia, alla sua storia devozionale: ci aiuta a decrittarla. Ma certo non implica che la Madre di Dio cristiana sia semplicemente una delle ipòstasi della Grande Madre. Qualcosa di molto singolare si è aggiunto, e molti hanno cercato di descrivere cosa sia, in termini teologici, filosofici, letterari, poetici. In un testo che risale al VII secolo bizantino, l’Akathistos, quello che i teologi considerano il più bell’inno mariano dell’antichità, la Grande Madre è invocata come «Madre dell’Astro che non tramonta, colonna di fuoco che guida chi è nella tenebra, roccia che disseta chi ha sete di vita, albero dai lunghi rami che dà ombra a migliaia, amore soverchiante ogni desiderio, iniziatrice di nuova forma razionale, raggio del sole intellettuale, freccia di luce inoffuscabile, tesoro di vita indissipabile, terapia della carne, salvezza dell’anima», ma soprattutto, ricorrentemente, come «sposa non sposa». Nel mondo ortodosso l’Akathistos si canta spesso, ma è particolarmente commovente ascoltarlo in un qualsiasi monastero maschile greco la notte tra il 14 e il 15 agosto, in occasione della festa dell’assunzione in cielo della Vergine — un vero asterismos, simile a quelli della tradizione classica — quando scure e melodiose voci di uomini soli invocano la Theotokos affiancando quell’accento di pura metafisica che contraddistingue la teologia bizantina all’invocazione struggente di una Madre lontana. La perturbazione ancestrale prodotta nella psiche maschile dalla Grande Madre è insopprimibile proprio perché sotterranea, universale perché collettiva e popolare. La preminenza femminile, la potenza della donna, nella tutto sommato non lunga storia del mondo patriarcale possono essere state rimosse in termini sociali, economici, politici, perfino programmaticamente negate in termini culturali, ma la struttura psicologica, che si riflette in quella religiosa, permane anche e soprattutto nel maschio. Donna, domna, domina: signora. Il nome che si dà oggi all’individuo umano femmina, ancora per molti aspetti subalterno, è già etimologicamente, nel suo affiorare alla lingua, un appellativo sacrale.
Silvia Ronchey in “la Repubblica” del 9 maggio 2018