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10/05/2018 06:00:00

Castelvetrano. Il comune sciolto per mafia e i retroscena di un ricorso inammissibile

 L’inammissibilità del ricorso contro lo scioglimento del Comune di Castelvetrano non è stata una sorpresa arrivata inaspettatamente il 2 maggio. Gli stessi ricorrenti sapevano che poteva finire così già dall’11 aprile scorso. In quella data, infatti, il Tar aveva emesso un’ordinanza con la quale si faceva esplicito riferimento proprio all’inammissibilità per “carenza di interesse a ricorrere”, assegnando alle parti dieci giorni di tempo “per presentare memorie vertenti su quest’unica questione”. Memorie, quelle dei ricorrenti, che però non hanno convinto.
Gli attori del ricorso sono cinque ex candidati al consiglio comunale delle amministrative 2017 abortite dallo scioglimento del comune ad appena cinque giorni dalle elezioni: Santa Giovanna Corso, Rosalia Ventimiglia, Niccolò Jorio Lipari, Liliana Monteleone e Maria Anna Piazza.
Tutti nuovi rispetto alla politica attiva della città, ma tutti del Movimento Liberi e Indipendenti di Luciano Perricone, ex candidato sindaco della coalizione sponsorizzata da Felice Errante che si era dimesso da primo cittadino poco prima dello scioglimento.

Ma perché il Tar ha giudicato inammissibile il ricorso dei cinque ex candidati? Chi avrebbe dovuto farlo al posto loro?
L’unico “titolato” sarebbe stato soltanto il dottor Francesco Messineo, ex procuratore di Palermo, nominato dalla Regione Siciliana commissario straordinario del consiglio comunale (che si era auto sciolto dopo le dimissioni dei consiglieri nel marzo 2017), prima di assumere anche gli incarichi del sindaco Errante, dimessosi il l'anno successivo.
Non avrebbe potuto ricorrere nessuno degli ex consiglieri, visto che si erano già dimessi prima che il comune venisse sciolto. Così come non avrebbe potuto farlo l’ex sindaco Errante, perché anche lui si era dimesso prima del decreto di scioglimento. In sostanza, né i consiglieri, né il sindaco, in quanto “ex” avrebbero avuto il cosiddetto “interesse concreto ed attuale all’annullamento dell’atto impugnato”.

E perché il consiglio comunale si era auto sciolto? È stata davvero una tardiva reazione all’imbarazzo provocato dal caso Giambalvo (il consigliere fan dei Messina Denaro, tornato in aula consiliare dopo l’assoluzione di primo grado)?
Forse le ragioni andrebbero cercate altrove. Nel marzo del 2016, infatti, in una conferenza di capigruppo, il sindaco Errante avrebbe parlato di un incontro col Prefetto di Trapani (Falco) e con il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, dove gli avrebbero chiesto di trovare subito 16 consiglieri disposti a dimettersi immediatamente, per evitare “altre circostanze” che avrebbero potuto determinare altri imbarazzi per la città.
Il Pd allora aveva proposto anche le immediate dimissioni del sindaco. Ma niente da fare. Ne avevamo già scritto due anni fa, riportando le dichiarazioni del segretario del Pd, Monica Di Bella: “Ci venne rappresentato che il problema del consiglio comunale andava al di là di Giambalvo e che il comitato per la sicurezza pubblica chiedeva al sindaco se avesse avuto 16 consiglieri disposti a dimettersi. In quell’occasione il sindaco aveva detto: ‘Io sono un sindaco politico. Se si dimettono 16 consiglieri mi dimetterò anch’io, esattamente come loro’. Ma nella successiva seduta successiva – aveva proseguito la Di Bella - quella del sabato 5 marzo, Errante nega di aver detto quelle cose il giorno prima e fa cambiare le sue dichiarazioni a verbale, che non era ancora stato chiuso”.

L’ex sindaco smentì durante una conferenza stampa, ma tutti sanno che senza il prezioso aiuto del Movimento Liberi e Indipendenti del consigliere Perricone, che offrì ad Errante altri tre dimissionari per raggiungere (e superare) il numero di 16 consiglieri disposti a dimettersi, il consiglio non si sarebbe sciolto senza pretendere le contestuali dimissioni del sindaco (che appunto, si dimise circa un anno dopo).
Le manovre per evitare lo scioglimento però non sono servite. E alla fine, il comune è stato commissariato per mafia. Ma, dato che tutti si erano dimessi (o comunque non rivestivano più alcuna carica) prima del decreto del Presidente della Repubblica, un loro ricorso al Tar sarebbe stato inammissibile.
E chi “combatte” per il buon nome della maggioranza politica della città? Perricone. Certo, non direttamente, dato che si era dimesso pure lui. E allora l’idea: mettere il ricorso nelle mani di cinque candidati del suo movimento alle prossime amministrative. Persone nuove che non facevano parte della rosa dei trenta già auto sciolta.
Ma niente da fare. Anche questa manovra si è rilevata fallimentare. Nemmeno quei cinque avrebbero potuto ricorrere, perché non avrebbero tratto dall’annullamento del provvedimento di scioglimento “un concreto e utile effetto - come è chiaramente specificato nella sentenza – né un’apprezzabile utilità ripristinatoria, certamente non parametrabili ai profusi sforzi economici e di impegno personale”. In sostanza, non avevano cariche pubbliche da ripristinare. Ed ovviamente, neanche per la loro campagna elettorale, fatta di soldi e tempo, avrebbero mai potuto pretendere un risarcimento. Insomma, la loro posizione, come peraltro era stato già evidenziato nell’ordinanza del Tar dell’11 aprile, era simile a quella di qualsiasi cittadino elettore.

Si dirà che anche qualsiasi elettore avrà diritto a far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune. Vero. Lo dice anche l’articolo 9 del Tuel (Testo Unico degli Enti Locali). Ma non in questo caso.
Infatti la misura dello scioglimento, anche se “incide – si legge sempre nella sentenza – sulle situazioni oggettive dei componenti degli organi elettivi, i quali, per effetto di essa vengono a subire una perdita di status, non altrettanto incide su quella dell’ente locale, titolare di posizioni autonome e distinte che, anzi, nella misura vede uno strumento di tutela e di garanzia dell’amministrazione”.
L’equivoco starebbe quindi nel considerare lo scioglimento come una sorta di ingiusta punizione per tutti i cittadini, senza considerare che invece si basa proprio “sull’accertata diffusione sul territorio della criminalità organizzata – scrivono ancora i giudici del Tar - e non ha natura di provvedimento ‘sanzionatorio’, non avendo finalità repressive nei confronti di singoli, ma risponde allo scopo fondamentale di salvaguardare la funzionalità dell’amministrazione pubblica”.

Oggi, questo concetto diventa più difficile da comprendere. Soprattutto alla luce del degrado cittadino prodotto in buona parte dalle carenze amministrative precedenti e dalle prevedibili lungaggini procedurali alle quali una commissione straordinaria non può certo sottrarsi. Se a ciò aggiungiamo l’esiguità delle risorse economiche disponibili e la tendenza (spesso fisiologica) allo scollamento tra la stessa commissione e l’apparato tecnico-burocratico del comune, ecco che la percezione di una migliore amministrazione non può che mancare.
Certo, molti hanno sottolineato che Castelvetrano, soprattutto in caso di proroga del commissariamento, rimarrebbe per due anni senza un governo eletto dal popolo. Ma è lo stesso popolo che ha eletto la precedente amministrazione, durante la quale è stata accertata l’infiltrazione della mafia.

Egidio Morici