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04/07/2018 06:00:00

La Strage di Via D'Amelio e il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana

“Uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana", quello che hanno fatto alcuni uomini dello Stato che hanno indotto diversi pentiti tra cui Vincenzo Scarantino a rendere dichiarazioni false sulla strage di Via D’Amelio.

E’ questa l’accusa che viene fuori dalle motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater depositate dai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta. 1.856 pagine, dodici capitoli, che costituiscono una parte fondamentale su uno dei misteri italiani rimasto ancora senza una verità 

Siccome le indagini hanno portato al cuore e agli uomini dello Stato: "È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, - scrivono i giudici di Caltanissetta - inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi".

Gli uomini dello Stato chiamati in causa sono alcuni investigatori del gruppo Falcone e Borsellino guidati dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera: costruirono a tavolino alcuni falsi pentiti.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il processo per tre poliziotti del «gruppo stragi». Sotto inchiesta sono finiti il funzionario Mario Bo, che è stato già indagato per gli stessi fatti e che ha aveva ottenuto l’archiviazione, ed i poliziotti Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Sono accusati di calunnia.

Secondo i giudici imbeccarono manovali del crimine, diventati pentiti di primo piano nella lotta a Cosa nostra. Ne venne fuori una falsa verità sugli autori dell’attentato al giudice Borsellino e alla sua scorta, condannati con una sfilza di ergastoli. E così si sarebbe chiusa la vicenda se una decina d’anni dopo non avesse iniziato a parlare Spatuzza, killer di padre Pino Puglisi e reggente del mandamento di Brancaccio, la cosca che più di ogni altra avrebbe partecipato all’organizzazione dell’attentato. Le motivazioni riguardano il dispositivo che, il 20 aprile del 2017, condannò all’ergastolo per strage Salvino Madonia e Vittorio Tutino e a 10 anni per calunnia Francesco Andriotta e Calogero Pulci, finti collaboratori di giustizia usati per mettere su una ricostruzione a tavolino delle fasi esecutive della strage costata l’ergastolo a sette innocenti.

Per Vincenzo Scarantino, il più discusso dei falsi pentiti, protagonista di «una serie impressionante - scrivono i giudici - di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni» venne dichiarata la prescrizione concedendogli l’attenuante prevista per chi viene indotto a commettere il reato da altri. Le reali conoscenze di Scarantino sulla strage sono pressoché nulle e la sua competenza criminale in un attentato di questo livello viene così bollata: «Scarantino palesa una incompetenza assoluta in materia di esplosivi - si legge - mostrando di ritenere che l’esplosione di una “bombola” faccia un danno molto maggiore di quello che si potrebbe provocare con un comune esplosivo. Ma è evidente anche che lo Scarantino non sa nulla circa le modalità di confezione della carica esplosiva utilizzata in via D’Amelio».

A Scarantino vennero suggerite "un insieme di circostanze del tutto corrispondenti al vero". Il furto della 126 rubata mediante la rottura del bloccasterzo è la verità che ha poi raccontato Spatuzza. I giudici si chiedono come facevano i suggeritori a sapere la storia della 126? "È del tutto logico ritenere — scrivono ora i giudici — che tali circostanze siano state suggerite a Scarantino da altri soggetti, i quali, a loro volta, le avevano apprese da ulteriori fonti rimaste occulte".

Chi ispirò i suggeritori? La corte ricorda che il 13 agosto 1992, il centro Sisde (il servizio segreto civile) di Palermo, comunicò alla sede centrale che "la locale polizia aveva acquisito significativi elementi sull’autobomba".

Altra anomalia rilevata dai giudici è "l’iniziativa decisamente irrituale" dell’allora procuratore di Caltanissetta Tinebra che ha chiesto la collaborazione nelle indagini di Bruno Contrada, all’epoca numero tre del Sisde, poi arrestato per mafia dai pm di Palermo nel dicembre del 1992.

"Una richiesta di collaborazione decisamente irrituale — ribadisce la sentenza — perché Contrada non rivestiva la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria". Da un lato ci fu la rapidità nel chiedere la collaborazione di Contrada già il giorno immediatamente successivo alla strage — mettono nero su bianco i giudici — dall’altro ci fu la mancata audizione di Borsellino nel periodo dei 57 giorni, dalla strage di Capaci fino alla sua morte.

Altro punto importante che i giudici ricordano nelle motivazioni della sentenza è il "collegamento tra il depistaggio dell’indagine e l’occultamento dell’agenda rossa di Borsellino".

«E’ stato sottolineato il ruolo fondamentale assunto, nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia, da Arnaldo La Barbera, il quale è stato intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa, come è evidenziato dalla sua reazione – connotata da una inaudita aggressività – nei confronti di Lucia Borsellino, impegnata in una coraggiosa opera di ricerca della verità sulla morte del padre». Mandanti ancora nell’ombra, forse gli stessi che subito dopo organizzarono il depistaggio. Da ricercare non solo tra gli uomini dello Stato ma anche nel mondo della finanza e degli affari.

Ritornando a Scarantino, ci furono poliziotti indefeli che pilotarono il falso pentito per finalità tutte da scoprire. Ma ci furono anche magistrati distratti e davvero poco professionali. La Corte d’Assise scrive: "Un insieme di fattori avrebbe logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle dichiarazioni di Scarantino, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, secondo le migliori esperienze maturate nel contrasto alla criminalità organizzata". I giudici hanno ricordato che due pm, Ilda Boccassini e Roberto Saieva, avevano scritto una nota ai colleghi per segnalare "l’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino su via D’Amelio". Ma restarono inascoltati. Anzi nessun magistrato della procura nissena notò qualcosa di stonato nel fatto che "La Barbera facesse dei colloqui investigativi con Scarantino nonostante avesse iniziato a collaborare con la giustizia".

Ma dietro il grande imbroglio, su una delle pagini più brutte della Repubblica, non possono esserci certo solo tre funzionari di polizia, più il loro capo. A tirare le fila ci sarebbero uomini dello Stato, mossi da «un proposito criminoso», che avrebbero esercitato «in modo distorto i poteri».
Su mandanti e coordinatori del depistaggio si sa ancora poco o nulla, sugli esecutori qualcosa in più. Nel mirino c’è il famoso «gruppo stragi» guidato da La Barbera. Il cui metodo d’indagine prevedeva singolari comportamenti. "Mentre erano addetti alla protezione dello Scarantino nel periodo in cui egli dimorava a San Bartolomeo a Mare con la sua famiglia - si legge - dall’ottobre 1994 al maggio 1995, si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo “Borsellino uno”.

"L’indagine sulle reali finalità del depistaggio - conclude la corte - non può, poi, prescindere dalla considerazione sia delle dichiarazioni di Antonino Giuffrè (il quale ha riferito che, prima di passare all’attuazione della strategia stragista, erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico, ha precisato che questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa ma anche per i suoi legami con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a “fare affari” con essa, ha ricondotto a tale contesto l’isolamento – anche nell’ambito giudiziario - che portò all’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e ha chiarito che la stessa strategia terroristica di Salvatore Riina traeva la sua forza dalla previsione - rivelatasi poi infondata - che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla “normalità”), sia delle circostanze confidate da Paolo Borsellino alle persone a lui più vicine nel periodo che precedette la strage di via D’Amelio. Un particolare rilievo assumono, in questo contesto, la convinzione, espressa da Paolo Borsellino alla moglie Agnese Piraino proprio il giorno prima della strage di Via D’Amelio, “che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”.