In viaggio verso l’unità, aveva detto papa Francesco salutando i giornalisti in aereo, in volo verso Ginevra, abbinando felicemente l’idea di un tragitto geografico con quella di un itinerario ecumenico in atto. I commentatori si sono abituati da tempo – e in particolare dalla svolta operata dal decreto conciliare Unitatis redintegratio (21/11/1964) – a far ricorso a metafore atmosferiche, per indicare lo stato del cammino di incontro tra le chiese. Così, negli anni subito dopo il Vaticano II prevaleva l’indicazione, densa di speranze, di una prossima primavera ecumenica, nella sensazione, in effetti diffusa, che in questo ambito il clima si stesse mettendo al bello; mentre nell’ultimo decennio, soprattutto dopo la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), è diventato comune il riferimento a un autunno, o addirittura un inverno ecumenico, ben distante dalle attese postconciliari. Le ripetute affermazioni identitarie che affiorarono nell’evento romeno, a chiusura del Processo conciliare su Pace, giustizia e salvaguardia del creato, potevano ritenersi un segno dei tempi, sia pure ambiguo: tempi complessi, di timori verso derive relativistiche... E ora, quale stagione stiamo attraversando? È legittimo sostenere che, quanto meno, stia chiudendosi l’inverno più cupo, e vada aprendosi una fioritura ricca di potenziali sviluppi? Il pellegrinaggio ecumenico di Bergoglio, svoltosi giovedì 21 giugno a Ginevra, in Svizzera, va in effetti in tale direzione, contribuendo a porre al cuore delle identità delle chiese l’obiettivo della loro relazione fraterna.
chiese cristiane da 110 Paesi
Occasione per il ventitreesimo viaggio internazionale del papa argentino, le celebrazioni per il settantesimo anniversario del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec, o Wcc dalle iniziali inglesi), principale raggruppamento di chiese cristiane su scala mondiale (la chiesa cattolica, è noto, vi partecipa da osservatrice), apertesi, sempre a Ginevra, lo scorso febbraio. Si tratta dell’organismo più ampio e inclusivo tra le organizzazioni del movimento ecumenico moderno, fondato ad Amsterdam nel 1948 e formato oggi da 348 chiese di 110 Paesi del mondo, in rappresentanza di oltre 560 milioni di cristiani. Esso comprende la maggior parte delle chiese ortodosse, numerose chiese protestanti storiche (anglicane, battiste, luterane, metodiste, riformate) e varie chiese indipendenti: una comunione di chiese riunite per promuovere dialogo e riconciliazione fra le diverse tradizioni cristiane. Si noti: i suoi fondatori provengono principalmente dall’Europa e dal Nord America, ma oggi la maggioranza delle chiese affiliate si trova in Africa, Asia, Caraibi, America Latina, Medio Oriente e Oceania. Per statuto, lo scopo primario del Cec è chiamarsi gli uni gli altri all’unità visibile in un’unica fede e in un’unica comunione eucaristica, diventando così per i suoi membri uno spazio di riflessione, azione, preghiera e impegno comuni. La sua ultima assemblea, decima della serie, si è tenuta a Busan, in Corea del Sud, nel novembre 2013, con il motto Dio della vita, guidaci alla pace e alla giustizia. Ora, la scelta di papa Francesco di recarsi in Svizzera per rendere omaggio al lavoro ecumenico del Cec non è stata priva di significati, tutt’altro, rappresentando un riconoscimento al contributo unico che tale organismo ha offerto al moderno movimento ecumenico. Già il 2 marzo, durante una conferenza stampa congiu predecessori, Paolo VI (10/6/1969) e Giovanni Paolo II (21/6/1984), ma mentre i viaggi precedenti erano stati dedicati anzitutto alla Svizzera e agli uffici ginevrini delle Nazioni Unite in qualità di capi di stato, Francesco – scegliendo di non visitare le agenzie internazionali che vi hanno sede – vi si è recato prima di tutto come capo della chiesa cattolica e vescovo di Roma.
camminare pregare lavorare insieme
Il motto della giornata è stato Camminare pregare e lavorare insieme, a riecheggiare il tema adottato dall’ultimo incontro del Cec; ma anche slogan congeniale a Francesco, camminare insieme, che più volte è ricorso a esso per indicare il salto di qualità che ai suoi occhi è chiamato a fare il movimento ecumenico nell’odierna stagione storica. E che ha segnato nella città di Giovanni Calvino un’altra tappa, non secondaria: com’è apparso evidente sin dal discorso papale della mattina, nella cappella del Cec, destinato a diventare una pietra miliare nella storia del movimento ecumenico. Sulla scorta della situazione dei Galati descritta dall’apostolo Paolo, i quali «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi a vicenda», Bergoglio ha preso la parola per una puntuale meditazione, indicando cosa significhi camminare insieme secondo lo Spirito: «Rigettare la mondanità, scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono ». A suo parere, l’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale. Camminare secondo lo Spirito significa scegliere con santa ostinazione la via del vangelo, rifiutando le scorciatoie del mondo. Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi lavorare in perdita, non pensando a tutelare solo «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o a orientamenti consolidati, siano essi maggiormente conservatori o progressisti». È necessario «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del vangelo il fratello anziché se stessi», il che significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita: «l’ecumenismo è una grande impresa in perdita. Ma si tratta di perdita evangelica». Il Signore ci chiede unità; il mondo, dilaniato da troppe divisioni che colpiscono soprattutto i più deboli, invoca unità. La meta è l’unità, mentre la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni, oltre a danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del vangelo a ogni creatura». E «le distanze che esistono non siano scuse – ha concluso con risolutezza Francesco – perché è possibile già ora pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!».
uniti nella speranza di un futuro comune e condiviso
Nel pomeriggio ci si è spostati nella Visser’t Hooft Hall. Qui Tveit ha voluto porre in evidenza che, con questa visita, è trasparente la dimostrazione che è possibile superare le divisioni e le distanze, così come i profondi conflitti legati alle diverse tradizioni e convinzioni di fede: «Il mondo in cui viviamo ha un disperato bisogno di segni che ci permettono di riconciliarci e di vivere insieme come un’unica umanità… Dobbiamo essere uniti nella speranza di un futuro comune e condiviso per tutti». Per concludere che «non ci fermeremo qui, continueremo, faremo di più insieme... Visto che oggi noi condividiamo sempre di più, facciamo in modo che le prossime generazioni possano creare nuove espressioni di unità, giustizia e pace!». È toccato poi alla moderatrice del Cec, la teologa anglicana, originaria del Kenya, Agnes Abuom, portare il saluto all’illustre ospite. «Lei è venuto da Roma a Ginevra», ha detto, «e ci auguriamo di poter proseguire la nostra strada insieme a lei come compagni di pellegrinaggio: portando conforto a chi soffre, celebrando il dono della vita di Dio e impegnandosi insieme in azioni trasformative che migliorino la vita delle persone ovunque vi sia bisogno di giustizia e di pace». Per poterlo fare davvero, è indispensabile che le chiese del Cec e la chiesa cattolica lavorino bene insieme, a livello internazionale e locale: come avverrà in occasione della Conferenza mondiale contro xenofobia, razzismo e nazionalismo populista nel contesto della Migrazione globale che si terrà a Roma nel prossimo settembre, senza escludere altri ambiti come la violenza contro le donne e i diritti dei minori.
ecumenismo e missione
Ha ripreso quindi la parola il papa per il suo secondo discorso, denso: e di grande prospettiva: «Il Cec è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro?». Tracciando un bilancio dei settant’anni del Cec, Francesco ha espresso un vivo ringraziamento per l’impegno profuso per l’unità, ma anche una preoccupazione derivante dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine (riferimento implicito al Congresso missionario di Edimburgo del 1910, considerato l’avvio del movimento ecumenico). Infatti, il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione umana, non può essere dimenticato: ne va della nostra identità, e l’annuncio del vangelo fino agli estremi confini è connaturato all’essere cristiani. Un nuovo slancio evangelizzatore: è questo «il tesoro che noi, fragili vasi di creta, dobbiamo offrire a questo nostro mondo tormentato. Se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi». Camminare, pregare e lavorare insieme: nel cuore del discorso il papa si è soffermato sui tre verbi della giornata. «Camminare in entrata», ha spiegato rilanciando motivi a lui cari, «per dirigerci costantemente al centro», che è Gesù, e in uscita, cioè «verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del vangelo all’umanità sofferente ». Anche nella preghiera non possiamo avanzare da soli, ecco il secondo imperativo, «perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra credenti che si amano». Infine, «lavorare insieme»: «la credibilità del vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta conflitti ». È la cartina al tornasole dell’ecumenismo, il fatto che i deboli siano sempre più emarginati, senza lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre meno e sempre più ricchi. «Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione », perché «il programma del cristiano è un cuore che vede»: «Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme?».
ecumenismo poliedro di unità tra diversi
Al termine della densa giornata ginevrina, chiusasi con una festosa eucaristia celebrata per la chiesa locale ma anche occasione per toccare con mano la perdurante divisione dei cristiani in tale ambito cruciale e i passi avanti ancora da compiere, non pochi sono apparsi i motivi di consolazione per il popolo del dialogo. Lo si è visto bene, infatti: procedendo insieme verso la piena unità, i cristiani possono apprezzare al meglio il loro patrimonio comune, e farsi più consapevoli di ciò che già condividono; allo stesso tempo, in tal modo potranno affrontare meglio le differenze ancora da superare, specialmente per quanto riguarda le questioni dottrinali o morali. Un dialogo la cui prospettiva sembra risiedere nell’unità nella diversità riconciliata, stando all’esortazione Evangelii gaudium (n. 230): fino ad adottare il linguaggio tipico del movimento ecumenico, ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità. Per il papa, dunque, l’identità cristiana non potrà mai essere compresa attraverso la negazione dell’altro, come nella storia delle chiese è accaduto spesso, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. Si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alle dinamiche vorticosamente centrifughe caratterizzanti questo tempo della globalizzazione, che potrebbe significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi. E di una strada unitaria, come Francesco ha mostrato concretamente una volta ancora a Ginevra, da cui oggi non è più possibile prescindere.
Brunetto Salvarani in “Rocca” n. 14 del 15 luglio 2018