Ieri, 22 Settembre, ricorreva l’anniversario della barbara uccisione di Rosario Livatino, magistrato. Era il 1990. I killer mafiosi lo affiancarono a bordo di una moto, sulla strada tra Agrigento e Canicattì, cominciarono a sparare, lui, colpito ad una spalla, scese dalla macchina, scappò per la campagna. Fu una corsa di pochi metri.
Quel 22 Settembre, non è stato solo Livatino a morire. E’ “morta” un’altra persona. Pietro Ivano Nava. Agente di commercio, 40 anni, lombardo, rappresentante di porte blindate, si trovava casualmente sulla stessa strada di Livatino e dei killer perchè aveva degli appuntamenti in Sicilia.
Vide l’omicidio.
Vide in faccia i killer.
Non esitò un minuto a fermarsi da un cliente, ad Agrigento, a chiamare la polizia, fornire una ricostruzione dettagliata e dire: “Ho visto i killer, saprei riconoscerli”.
Così avvenne.
Pietro Ivano Nava è stato il primo vero testimone di giustizia in Italia.
Vero, autentico: ha visto un crimine efferato, lo ha denunciato, senza se e senza ma, portando alla condanna dei killer.
Lui è morto quel giorno, perché lo Stato gli ha dato protezione, sistemazione, una nuova identità. Ma il signor Nava è morto, un’altra persona vive adesso la sua vita, tra le mille difficoltà di chi in un pomeriggio ha perso tutto: il lavoro, la carriera, la casa, gli amici.
Ricordiamo sempre Livatino, ma dovremmo non dimenticare Nava.
E’ stato il primo vero testimone di giustizia italiana. Non era mafioso, non ha parlato perché gli hanno ucciso un parente, o perchè era stanco dell’ambiente in cui viveva. Non ha parlato per rifarsi una vita. Non ha fatto ricostruzioni, supposizioni, congetture. Ha raccontato la meccanica di un fatto, i lineamenti di un volto. Una, due, tre volte, ogni volta che gliel’hanno chiesto.
E, con grande rispetto dello Stato non ha utilizzato la sua condizione per fare carriera politica o reclamare un posto, fare il presidente di qualche fantomatica associazione antimafia o antiracket, giocare con la doppia identità, fare, ancora peggio, il gioco del non potersi mostrare in pubblico per poi mostrarsi, tipico di certe starlette dell’antimafia. Non si è autocelebrato come eroe.
La sua assenza, da allora, parla per lui. E parla di uomo normale, che ha fatto una cosa semplice, responsabile, umana.
“Perchè lo ha fatto?”, gli chiesero una volta i giornalisti, durante l’udienza del processo in cui aveva appena confermato l’identità dei killer di Livatino. “Perchè l’ho fatto? Perchè sono stato educato così”.
Grazie, signor Nava.
Giacomo Di Girolamo