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25/09/2018 06:41:00

Marsala, omicidio Mirarchi: chiesto l'ergastolo per Girgenti. Il punto sul processo

Il carcere a vita, con 18 mesi di isolamento diurno, è stato invocato da pubblico ministero Anna Sessa per il 47enne bracciante agricolo e vivaista marsalese Nicolò Girgenti, processato davanti la Corte d’assise di Trapani con l’accusa di essere uno degli autori, in concorso con ignoti, dell’omicidio del maresciallo capo dei carabinieri Silvio Mirarchi.

Alla richiesta del pm si sono associati i legali di parte civile, gli avvocati Giacomo Frazzitta, Piero Marino e Roberta Tranchida per i familiari di Mirarchi, e Walter Marino per l’appuntato Antonello Massimo Cammarata, che hanno inoltre chiesto un risarcimento danni di un milione di euro per ciascuna parte civile costituita.

L’avvocato difensore Genny Pisciotta terrà la sua arringa il prossimo 1 ottobre. Miarrchi, all’epoca vice comandante della stazione di Ciavolo, fu ferito a morte con un colpo di pistola la sera del 31 maggio 2016 nelle campagne di contrada Ventrischi, mentre con un altro carabiniere, l’appuntato Cammarata, era impegnato in un appostamento (volto a contrastare furti in campo agricolo) nei pressi di una serra all’interno della quale furono, poi, scoperte 6 mila piante di canapa afgana. Sette sarebbero stati, secondo gli inquirenti, i colpi di pistola esplosi da almeno due persone contro i due militari. Girgenti fu arrestato una ventina di giorni dopo a seguito delle risultanze investigative del Comando dei carabinieri di Trapani e degli accertamenti del Ris di Messina, secondo i quali bracciante era nella zona dei fatti all’ora della sparatoria. La sua auto, quella sera, sarebbe transitata dalla strada in cui fu ucciso Mirarchi. Addosso, inoltre, gli furono trovate tracce di sostanze (nichel e nichel-rame) che, secondo l’accusa, sono presenti nella polvere da sparo. Anche se, secondo la difesa, potrebbero essere ricollegate all’uso dei fertilizzanti maneggiati da Girgenti sua attività lavorativa. Secondo l’accusa, la sera del 31 maggio 2016, all’arrivo del maresciallo Mirarchi e dell’appuntato Cammarata, Nicolò Girgenti, insieme a qualche altro complice, stava rubando piante di marijuana dalla serra che aveva gestito fino a circa tre mesi prima. Agendo da “socio infedele” del nuovo gestore, il partinicese Francesco D’Arrigo. Quest’ultimo fu individuato e arrestato poche ore dopo la sparatoria. E per coltivazione di marijuana, il 19 luglio 2017, D’Arrigo è stato condannato dal gup Riccardo Alcamo a 3 anni e mezzo di carcere. Tre anni, invece, sono stati inflitti a Fabrizio Messina Denaro e 2 anni e mezzo a Girgenti. La sera del 31 maggio 2016, i malviventi, vistisi scoperti, non esitarono a far fuoco contro i due carabinieri. Dopo avere individuato il presunto assassino (o comunque uno dei due presunti assassini), gli investigatori hanno cercato di capire quali sono stati i suoi movimenti tra le 21.51 (ora della sparatoria) e le 22.10. A mettere con le spalle al muro il Girgenti sono state le sue prime dichiarazioni. Ai carabinieri, infatti, ha inizialmente, detto che quella sera era ritornato a casa, non distante dal luogo dell’omicidio, intorno alle 20.30 e non sarebbe più uscito. Ai militari che hanno bussato alla sua porta disse che era andato a dormire, ma in aula il luogotenente Alberto Furia ha riferito che il suo volto non gli era sembrato “assonnato”. Dalle immagini registrate da due telecamere, inoltre, ha detto il maresciallo Pipitone, si vede passare, pochi minuti dopo il delitto, un’Audi A3 metallizzata con cerchioni delle ruote particolari simile proprio a quella del Girgenti. Sulla sua auto, inoltre, il bracciante marsalese, per risparmiare sull’assicurazione, aveva fatto installare un dispositivo (Gprs) che rileva gli spostamenti del mezzo. E dal Gprs (General Packet Radio Service) gli investigatori scoprono che l’auto, intorno alle 22, era in movimento. Quindi, Girgenti era al volante di quell’auto (a meno che non dimostri che l’avesse prestata a qualcuno) nei frangenti in cui fu commesso l’omicidio. Perché, dunque, ha mentito agli investigatori sui suoi movimenti di quella drammatica sera? E’ questo lo pone in grave difficoltà. Ne mina la credibilità agli occhi di carabinieri e Procura. La difesa (inizialmente l’avvocato Vincenzo Forti e pi Genny Pisciotta) ha, poi, cercato di cavalcare la possibile pista del “fuoco amico”, ma questa è stata categoricamente esclusa prima dal maggiore Antonio Merola e poi da perito balistico Claudio Gentile. Lo scorso 11 giugno, infine, il pentito palermitano Sergio Macaluso, ex reggente del mandamento mafioso di Resuttana, ascoltato, su richiesta dell’avvocato difensore Genny Pisciotta, ha dichiarato: “Francesco Lojacono (genero di Francesco D’Arrigo, ndr) mi disse che aveva messo degli uomini armati a lui vicini a guardia delle serre di marijuana che aveva impiantato tra Marsala e Trapani”. Secondo Macaluso, che comunque non ha fatto i nomi degli uomini armati posti a guardia delle serre con la marijuana (anche se la difesa ha evidenziato che il pentito ha parlato di uomini reclutati a Partinico), una parte del ricavato di quell’attività illegale doveva andare al clan mafioso da lui capeggiato. La necessità di spostare quell’attività illegale nella parte più occidentale della Sicilia era dettata dal fatto che ormai le forze dell’ordine monitoravano molto attentamente la zona di Partinico. Secondo accusa e parti civili, comunque, le dichiarazioni di Macaluso non portano elementi di novità ai fatti del processo. Per gli inquirenti, infatti, a sparare sette colpi di pistola contro Mirarchi e l’appuntato Cammarata, rimasto casualmente illeso, sarebbe stato il Girgenti insieme ad un altro complice.