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14/10/2018 06:00:00

Mafia Marsala – “The Witness”: Assolti in appello Sebastiano Angileri e la moglie

 Condannati, con rito abbreviato, in primo grado, sono stati assolti in appello i coniugi marsalesi Sebastiano Angileri, di 51 anni, fabbro, e Vita Maria Accardi.

Coinvolti nell’operazione antimafia dei carabinieri “The Witness” (9 marzo 2015) erano entrambi accusati di intestazione fittizia. Angileri, che rimase in carcere per 22 giorni, anche di favoreggiamento per avere accompagnato, in un due occasioni, nel 2001, due mafiosi ad incontri con l’anziano boss Antonino Bonafede.

Per gli avvocati difensori Carlo Ferracane e Celestino Cardinale, però, lui si limitò a dare dei passaggi in auto (a Vincenzo Giappone e a Martino Pipitone), ma non partecipò a quegli incontri e non sapeva di cosa parlavano i mafiosi.

Il 9 marzo 2015, la moglie fu soltanto denunciata. Il gup di Palermo Nicola Aiello aveva inflitto due anni di reclusione all’uomo, escludendo però l’aggravante mafiosa, e un anno e 4 mesi alla donna.

Adesso, Angileri e Accardi sono stati assolti (“il fatto non sussiste”) dalla prima sezione della Corte d’appello di Palermo, presieduta dal giudice Gianfranco Garofalo. A difendere la coppia, sin dalle prime battute del procedimento, è stato l’avvocato Carlo Ferracane, che poi è stato affiancato dal collega Celestino Cardinale. Dopo la lettura della sentenza, i due legali hanno, naturalmente, espresso “soddisfazione” per l’esito del processo, aggiungendo: “I due coniugi non c’entrano nulla con questi contesti. Del resto, anche il Tribunale del Riesame, quando scarcerò Angileri, evidenziò la mancanza dei gravi indizi di colpevolezza e quando la Procura di Palermo fece ricorso in Cassazione avverso la decisione del Riesame, la Suprema Corte rigettò. Angileri ha solo fatto un favore a Martino Pipitone”. Quest’ultimo, nel 2015 definito dagli investigatori “anziano esponente di rilievo della consorteria mafiosa marsalese” che avrebbe esercitato la sua “sfera d’influenza nel centro storico”, fu accusato di avere intestato fittiziamente alla moglie del fabbro una società operante nel commercio all’ingrosso di materiale ferroso. Anche se nel processo a suo carico i suoi difensori hanno sostenuto che lui era realmente un dipendente. Non solo sulla carta, come sostenuto dall’accusa. Lo scorso aprile, intanto, ritenendo “inammissibili” i ricorsi della difesa, la Cassazione ha posto il suo definitivo sigillo sulla sentenza cui, il 13 novembre 2017, Corte d’appello di Palermo ha confermato le condanne inflitte in primo grado dal Tribunale di Marsala (presidente del collegio: Sergio Gulotta) a tre dei quattro arrestati nell’operazione antimafia dei carabinieri “The Witness”. E cioè Antonino Bonafede, 82 anni, pastore e vecchio “uomo d’onore”, che secondo i magistrati della Dda aveva “ereditato”  il bastone del comando in seno alla famiglia mafiosa lilybetana dal figlio Natale, in carcere dal gennaio 2003 con una condanna definitiva all’ergastolo, Vincenzo Giappone, di 56, anch’egli pastore, e Martino Pipitone, 68 anni, ex impiegato di banca in pensione, che in passato ha già scontato una condanna a 6 anni per mafia. Quest’ultimo, difeso dagli avvocati Stefano Pellegrino e Vito Cimiotta, l’8 giugno 2016, è stato, però, assolto dal Tribunale marsalese dall’accusa di mafiosa, seppur condannato a due anni di reclusione per intestazione fittizia di una società ad altra persona “per evitare eventuale confisca da parte dello Stato”. La pena più severa, 16 anni di carcere, il Tribunale l’aveva inflitta, invece, ad Antonino Bonafede, pur escludendone il ruolo di vertice in seno alla locale famiglia mafiosa. E la Corte d’appello aveva confermato. La pena per Bonafede è stata “complessiva”. Include, infatti, anche i 6 anni già scontati per una precedente condanna per mafia. Di fatto, quindi, gli sono stati inflitti altri 10 anni (per il periodo dal 2006 in poi). Il pm Carlo Marzella, due anni fa, ne aveva chiesti 12.

“La sentenza – commentò l’avvocato difensore Paolo Paladino dopo la sentenza di primo grado – accoglie la richiesta della difesa finalizzata all’esclusione del ruolo di capo”. E davanti la Corte d’appello, nella sua arringa, l’avvocato Paladino aveva ribadito: “I fatti ricostruiti dalle indagini non sono riconducibili ad un sistema organizzato, tantomeno di tipo mafioso”. A Bonafede senior, intanto, nel gennaio 2015, sono stati confiscati beni per oltre 4 milioni di euro. Confermata anche la condanna a 12 anni di carcere, sempre per mafia, per Vincenzo Giappone. Per lui, in primo grado, una pena superiore a quella invocata dal pubblico ministero (10 anni). Giappone sarebbe stato il cassiere della “famiglia” e il “primo collaboratore” di Bonafede senior, che per la Dda avrebbe cercato di riorganizzare la locale cellula di Cosa Nostra.