Il pm antimafia a Napoli all’incontro di formazione per avvocati e giornalisti: “Assistiamo a silenzio e nascondimento dei fatti. Contro la procura iniziative fortissime di Napolitano, che non si era mosso per un altro precedente di sue intercettazioni con Bertolaso”
L’accusa risuona nell’aula gremita, quando il pm Nino Di Matteo parla di “silenzio e nascondimento dei fatti”. I fatti sono quelli del processo per la trattativa Stato-mafia, concluso in primo grado ad aprile. Un dibattimento che avrebbe dovuto fare epoca, sancendo le condanne contestuali – ancorché non definitive – di pezzi grossi dell’Arma come Mario Mori, Antonio Subranni, e Giuseppe De Donno; di Marcello Dell’Utri, ex braccio destro di Silvio Berlusconi; di boss mafiosi quali Antonino Cinà e Leoluca Bagarella.
Invece niente da fare, come non detto. “Di questo processo non si deve parlare” ripete Di Matteo, uno dei pubblici ministeri. Inizia quasi una requisitoria bis, per il magistrato oggi in forza alla Procura nazionale antimafia. Parole secche (“Non si può più definire presunta la trattativa”), ricostruzioni mortificanti, per lo Stato che avvicinò Cosa nostra chiedendo di fermare le bombe. E le bombe non si fermarono, avendo capito che la strategia pagava. Il racconto, atti alla mano, ripercorrere un traversata nel deserto. Sono 25 anni di storia italiana, a caccia dei colpevoli delle stragi del 92-93 e di chi li copriva, camminando tra ostacoli visibili e più nascosti. Di Matteo è a Napoli per l’incontro promosso dagli ordini locali dei giornalisti e degli avvocati e dall’università Federico II, che ospita l’evento. Si succedono diversi contributi, ma il cuore della giornata è l’intervento del pm, ascoltato dalla platea quasi col fiato sospeso. Come sempre sospesa appare la verità dei misteri d’Italia.
“La sentenza definitiva del processo Andreotti afferma che fino al 1980 – dice Di Matteo – l’ex presidente del consiglio ha intrattenuto rapporti significativi con i capi di Cosa nostra per discutere dei danni dell’azione di Piersanti Mattarella alla Regione Sicilia, prima, per poi lamentarsi del suo omicidio, dopo. Questo c’è scritto in una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano, ma pochi italiani lo sanno”. È solo uno dei capitoli di uno strano romanzo, scritto tra censure e omissioni. Il copione di cui sono intessute le periodiche relazioni tra mafiosi e istituzioni. “Quando è balzata all’onore delle cronache la vicenda delle telefonate di Mancino a Napolitano – rievoca il pm -, dopo che nei confronti di noi magistrati sono partite iniziative fortissime, nessuno ha rilevato che la stessa situazione si era verificata per Scalfaro e Napolitano in un’altra inchiesta. Le intercettazioni erano finite sui giornali e non era partita nessuna iniziativa. Perché il mondo accademico non ha rilevato questo?”.
Si parla del conflitto di attribuzione sollevato nel 2012 dall’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sugli ascolti tra lui e Nicola Mancino, ex presidente del Senato. Telefonate per cui sarà poi disposta la distruzione, senza che il contenuto fosse messo a disposizione delle parti, contro il parere della procura di Palermo. Di Matteo richiama due precedenti che non avevano innescato analoga reazione del Quirinale. Uno riguardava Oscar Luigi Scalfaro, nel 1993 al Colle. La sua voce venne registrata il 12 novembre sull’utenza dell’amministratore delegato della Banca Popolare di Novara, il contenuto finì sul quotidiano “Il Giornale” nel 1997. Il secondo episodio coinvolgeva proprio “Re Giorgio” nel 2009: I carabinieri del Ros, nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Firenze sugli appalti per il G8, lo intercettarono due volte tra il 6 marzo e il 9 aprile, in conversazioni senza rilievo investigativo, nei giorni del sisma in Abruzzo. All’altro capo del telefono c’era Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, titolare dell’utenza intercettata. “Come mai allora Napolitano non sollevò alcun conflitto di attribuzione?”, si domanda Di Matteo. La risposta cade ancora nel vuoto. E peccato che a raccoglierla non ci siano molti organi di stampa: sintomatico, in un incontro organizzato dall’ordine giornalisti per la formazione professionale.