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18/01/2019 08:03:00

Marsala, il processo a Michele Licata e famiglia. Fresina: "Fu lui a dire di essere il..."

Un’ammissione di colpevolezza e, al contempo, un tentativo di scaricare da responsabilità i congiunti che ha messo nei guai con la giustizia. E’ quanto ha tentato, sin dalle prime battute dell’inchiesta di Procura e Gdf che lo ha travolto, l’ex imprenditore leader del settore ristorazione-alberghiero Michele Licata.

“Fu lo stesso Licata a dichiarare al pm che lo interrogava che era lui il deus ex machina dei movimenti finanziari dei suoi familiari” ha, infatti, dichiarato, in Tribunale, Antonio Fresina, uno dei due amministratori giudiziari dell’impero economico posto sotto sequestro, ascoltato nel processo vede alla sbarra quasi l’intero nucleo familiare di Michele Licata. Le accuse, a vario titolo, contestate dalla Procura (pm Antonella Trainito), sulla base delle indagini svolte dalla Guardia di finanza, sono auto-riciclaggio, ricettazione e “sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte”.

Il procedimento è scaturito dagli ulteriori approfondimenti svolti nel corso dell’inchiesta che ha visto il noto imprenditore travolto per una mega-evasione fiscale, truffa allo Stato e malversazione. Accuse, queste ultime, che il 2 dicembre 2016 sono sfociate nella condanna di Michele Licata a 4 anni, 5 mesi e 20 giorni di carcere.

Per l’accusa, è lui il “dominus” del gruppo imprenditoriale finito sotto sequestro nel 2015 (alberghi, ristoranti, beni mobili e immobili, quote sociali, titoli e denaro per quasi 130 milioni di euro). E le sue manovre hanno finito per coinvolgere i suoi sei familiari.

In questo secondo processo, l’accusa, per Licata, è quella di avere tentato di evitare, con una serie di operazioni bancarie, l’eventuale sequestro di altre somme di denaro, versandolo sui conti correnti dei familiari.

In Tribunale, Antonio Fresina ha riferito dei vorticosi movimenti bancari operati da Michele Licata e di almeno 5 milioni di euro di “false fatture” per operazioni inesistenti. “Anche se i soldi – ha aggiunto – sono stati comunque spesi per costruire”.

Tra il 2006 e il 2013, inoltre, ci sono stati “10 milioni di euro extra-conto”. Con “assegni destinati alle aziende che dopo essere stati scambiati allo sportello bancario venivano versati sui conti personali, questo per circa 20 milioni di euro”. Cercando, infatti, il “tesoro” del “gruppo Licata”, la Guardia di finanza (Nucleo di polizia tributaria di Trapani e sezione di pg della Procura), nell’ottobre 2015 sequestrò denaro contante per 50 mila euro e assegni per circa un milione e 200 mila euro. E proprio in quel momento finì indagato l’intero nucleo familiare di Michele Licata. Per auto-riciclaggio e ricettazione. Dall’inchiesta, infatti, è emerso che il noto imprenditore, proprio per scongiurare il pericolo di subire ulteriori sequestri (almeno secondo l’ipotesi investigativa), avrebbe tolto somme di denaro dai suoi conti correnti per versarli su quelli dei familiari (la moglie Maria Vita Abrignani, la madre Maria Pia Li Mandri e la figlia Silvia) fino a quel momento non indagati, ma per questo ora chiamati a rispondere del reato di ricettazione, come pure la figlia Valentina e il genero Roberto Cordaro.

Il reato di ricettazione sarebbe stato commesso anche in danno di alcune loro stesse società, dalle cui casse sarebbe stato prelevato denaro (diversi milioni di euro) poi depositato sui conti correnti personali. A difendere gli imputati è un collegio di avvocati di “grido”: Carlo Ferracane, Stefano e Andrea Pellegrino, il palermitano Giacchino Sbacchi (che fu difensore anche di Giulio Andreotti) e il milanese Salvatore Pino.