Reca il numero 2644 e la data del 10 agosto 1884; è il regio decreto che, per la prima volta, ha attribuito all'acqua il carattere di bene pubblico. Sono passati 135 anni, eppure non siamo ancora usciti dalla falsa contrapposizione tra pubblico e privato. Le società che gestiscono il sistema idrico in italia sono, nel 75% dei casi, pubbliche e anche il residuo 25% in mano ai privati opera in concessione e con tariffe regolamentate, limitandosi appunto alla gestione.
Secondo un'indagine di Federconsumatori, il costo medio in Italia per un consumo di 200 metri cubi è di 311 euro; a parità di consumi, la media della spesa in undici capitali europee è pari a 518 euro all'anno.
In sostanza, non ci dovrebbe essere materia del contendere: l'acqua è innegabilmente pubblica, le società concessionarie sono pubbliche tre volte su quattro e le tariffe non sono certo gravose; semmai è vero che la componenente del sistema che presenta gravi limiti è proprio il «pubblico», con la sua congenita incapacità ad avviare un programma d'investimento per migliorare il servizio e rimediare alla vergogna degli acquedotti meridionali che disperdono nel sottosuolo il grosso dell'acqua immessa nei tubi o rimediare allo scandalo di vaste aree del Paese senza impianti di depurazione degli scarichi fognari.
Eppure, la guerra di religione per affidare la gestione del ciclo idrico solo al «pubblico», continua; è quanto prevede, da ultimo, il disegno di legge, prima firmataria Federica Daga del M5S, che reca «Disposizioni in materia di gestione pubblica del ciclo integrale delle acque», in corso di esame in Commissione Ambiente alla Camera.
«Nel nostro Paese - si legge nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge del M5S - appare evidente che il sistema ha fallito e che le politiche di privatizzazione hanno prodotto il disastro». Politiche che, ricordiamolo, hanno portato a affidare ai privati solo un quarto del servizio idrico, in termini di soggetti gestori, e appena il 3% del mercato, in termini di popolazione servita.
C'è il concreto rischio che la norma all'esame della Commissione Ambiente possa generare, con la revoca delle concessioni ai privati, l‘ennesima mazzata per i conti pubblici. Il Corriere della Sera prova quantificare il costo per l'utente. «Per svoltare in favore del pubblico, ai gestori uscenti andranno riconosciuti indennizzi, oltre a conguagli per costi pregressi, che ancora non hanno avuto un riconoscimento in tariffa». Si arriva a un costo presunto di una ventina di miliardi di euro.
Il vero problema del mercato dell'acqua, però, non risiede nell'inesistente contrapposizione tra pubblico e privato, ma in una verità diversa: il sistema, che è prevalentemente pubblico, funziona bene nel Centro-Nord e male al Sud e nelle Isole.
Così accade per molti altri servizi pubblici come i rifiuti o i trasporti. Le due principali imprese italiane che si occupano di acqua e rifiuti sono Hera e A2A; entrambe sono società quotate in borsa, entrambe garantiscono elevati livelli di qualità nei territori gestiti, entrambe sono controllate da Comuni.
E la Sicilia? Il rapporto dei Siciliani con l'acqua non è mai stato dei più facili; che si parli d'irregolarità nelle forniture idriche, di depurazione, di qualità o di reti colabrodo, il rapporto con il prezioso elemento si mantiene stabilmente su livelli critici. Sul territorio nazionale ci sono ancora comuni privi di rete fognaria; in totale quelli che soffrono di tale carenza infrastrutturale sono 40, con una popolazione di 385 mila abitanti. Più della metà (esattamente 26) di questi comuni sono localizzati in Sicilia, in particolare nella provincia di Catania.
Nell'occasione della giornata mondiale dell'acqua l'Istat ha diffuso un report sulla situazione del comparto idrico italiano che, per andare alla sintesi, restituisce una fotografia della Sicilia tra le peggiori in Italia e spesso anche rispetto allo stesso Mezzogiorno. Particolarmente gravosa è la situazione della Sicilia, dove si registra la quota più elevata di famiglie che lamentano irregolarità nell'erogazione dell'acqua (36%); a confronto con la Sicilia, le famiglie che lamentano irregolarità nel servizio si riducono a quasi un decimo nelle regioni del Nord (3,5%).
Gli Italiani che dichiarano di non fidarsi dell'acqua di rubinetto - consumando quella imbottigliata - rappresentano una quota considerevole. Si tratta, infatti, di oltre sette milioni di famiglie. Le percentuali più elevate si hanno, ancora una volta, in Sardegna (55%) e Sicilia (53%), quelle più basse, invece, nel Nord (19%). E dire che mille litri di acqua al rubinetto costano poco più di due euro e mille litri in bottiglia 270 euro!
In Italia, quando si parla di acqua, la contrapposizione «pubblico-privato» resta sempre sullo sfondo, ma il più delle volte sembra fumo negli occhi; sembra un semplice espediente per sottrarsi al confronto sul vero nocciolo del problema: efficienza o inefficienza del servizio? Nessuno dirà mai che sceglie la seconda, ma nessuno si adopera realmente per favorire la prima.