Era appena diplomato all’Accademia di Belle Arti quando il principe milanese lo volle per allestire le scene teatrali di “Troilo e Cressida” e poi lo chiamò, come assistente, sul set di “La terra trema”. Cominciava così un sodalizio vitale, burrascoso e fecondo che coinvolse gli affetti di Zeffirelli, la sua formazione estetica, la sua carriera. Senza Visconti, probabilmente il giovane orfano (il padre non lo aveva riconosciuto, la madre mori’ quando era bambino) non avrebbe calcato i palcoscenici più famosi, non sarebbe diventato amico e confidente di stelle come Maria Callas o Richard Burton, non avrebbe potuto debuttare dietro la cinepresa già nel ’57 (con “Camping”) dopo un tirocinio che lo aveva affiancato a Francesco Rosi nella lavorazione di “Senso” (1954). Eppure quella cavalcata folgorante e fortunata fu anche il segno critico che per molti anni non avrebbe abbandonato l’immagine di Zeffirelli, fino a diventare un vanto e una maledizione: lo hanno descritto come un calligrafo, un esteta, uno scenografo vestito da regista. E invece onestà vuole che si ricordi il suo vibrante documentario sull’alluvione di Firenze (1966) con la voce narrante proprio di Burton e poi una coppia di successi spettacolari come “La bisbetica domata” (che nel ’67 riunì Burton e Liz Taylor) e “Romeo e Giulietta” (1968). Il nume tutelare era la penna di William Shakespeare, sua la lingua che aprì al regista italiano le porte della fama internazionale, tutti italiani il gusto e la cultura che rivitalizzavano le due grandi tragedie elisabettiane. Quattro anni dopo l’operazione si ripete nel nome di San Francesco con “Fratello sole, sorella luna” (1972). Ormai Zeffirelli è una star, eppure un pregiudizio negativo lo accompagnerà sempre per il suo gusto anticonformista di smarcarsi costantemente dalle correnti del pensiero dominante. Polemico, feroce nei giudizi, scoperto nelle fragilità personali (compresa un’omosessualità vissuta senza clamori, ma senza compromessi), orgogliosamente fazioso, dalla politica allo sport, Zeffirelli si riterrà a lungo uno straniero in Italia. L’altra sua anima è quella cattolica, che trova le radici nel magistero di Giorgio La Pira, carismatica figura della fede in politica che fu suo istitutore al convento di San Marco. Non è certo uno sperimentatore Zeffirelli, eppure proprio nel ’74 si cimenta con la tv filmando la cerimonia dell’Anno Santo e poi, due anni dopo, firma per la Rai, il kolossal “Gesù” con Robert Powell nei panni del Cristo. Ma appena può si rifugia in teatro, dimostrandosi insuperabile come custode dell’allestimento classico per l’opera lirica. La sua “Aida” verdiana farà storia, ripetutamente verrà chiamato ad aprire la stagione della Scala. E’ come se questo secondo amore assorbisse tutte le sue energie da quel punto in poi. Non abbandona il cinema, ma sono rari i titoli successivi capaci di fare storia, dal contestato “Il giovane Toscanini” a un modernissimo “Amleto” che meriterebbe rivisitazione critica. Dagli anni ’90 la sua firma si fa più rada. Nel ’94 entra in Parlamento, eletto senatore a Catania nelle liste di Forza Italia, confermandosi due anni più tardi. Anche nella cultura liberale il suo anticonformismo disturba più d’uno e le sue proposte per la cultura e per l’ambiente non hanno seguito.
I riconoscimenti che scandiscono la sua carriera sono relativamente pochi rispetto al grande successo conquistato: c’è da riflettere sul fatto che nessun grande festival, neppure l’Oscar abbia voluto riconoscere il suo indubbio talento. Da qualche anno si era rinchiuso in un quieto silenzio, circondato dall’affetto di pochi amici e dei suoi cani nella bella casa romana e nella villa sulla costiera amalfitana. Ha sempre sognato uno spettacolo al servizio di grandi interpreti, di grandi spazi, di lussuose confezioni. Ha immaginato una cultura italiana ancora rinascimentale, intrisa di gusto antico e di eleganti riferimenti al passato. Ha voluto un’Italia dell’arte e del bello capace di conquistare ancora il mondo, e più di una volta ci è riuscito, pagando però il prezzo dell’isolamento e di un “passatismo” scambiato spesso per arroganza aristocratica. La sua visione del mondo e di se stesso è affidata alla bella autobiografia del 2008. Giovane bellissimo, poi dandy raffinato ed elegante, infine gentiluomo anziano e solitario, Zeffirelli resta un testimone isolato di una civiltà ormai scomparsa.