Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
23/06/2019 07:24:00

Autori allo specchio: Vanessa Ambrosecchio racconta Domenico Conoscenti

[Continua oggi la nostra rubrica Autori allo specchio, in cui due scrittori raccontano - in un singolare gioco di riflessi e rifrazioni - l’uno l’opera dell’altro. Ieri Domenico Conoscenti ha parlato dei racconti e dei romanzi di Vanessa Ambrosecchio. Oggi lo specchio si ribalta, e sarà Vanessa Ambrosecchio a leggere i racconti e il romanzo di Domenico Conoscenti. Lontane da giudizi critici o stilistici, sono pagine che ci mostrano quanto affascinante sia l’occhio di uno scrittore che legge e indaga il lavoro di un altro scrittore.]

 

di Vanessa Ambrosecchio


Nella scrittura di Domenico Conoscenti mi sento a casa. Affine alla mia sento la sua ricerca, l’aspirazione a una parola ricca, pastosa, smagliante, ma non perciò barocca, piuttosto scevra di compiacimenti e abbandoni alla sensualità del significante, dove la misura resti vigile e l’unità di questa misura sia sempre il racconto, l’ossatura della storia, robusta, organica, sostanziosa, cui la parola aderisca senza dissertare né disertare. Anche alcuni temi da lui attraversati mi risuonano profondamente, e ne rintraccio come cerchi nell’acqua nelle cose che scrivo. Tra questi, il tema del doppio e quello della Città.

Il tema del doppio è quasi ossessivo in Conoscenti. Ne La stanza dei lumini rossi si presenta in maniera esplicita, a un primo livello di lettura, nei due incontri esiziali che il protagonista fa con due donne: l’anziana padrona di casa dell’appartamento che prende in affitto, che riesce da subito a stabilire con lui un rapporto malato di attrazione e repulsione, di dipendenza e di ribellismo, non dissimile da quello che può crearsi tra madre e figlio; e una affascinante donna settentrionale, in città perché parte in causa in certi loschi affari che vedono protagonisti funzionari e politici corrotti, con la quale intreccia una relazione sentimentale ed erotica ai limiti del sadismo. Già basterebbe questo a intrigare, ma come accade nei grandi romanzieri dell’800, un plot da romanzo d’appendice riesce, nell’incalzare di una vicenda costruita sapientemente per acchiappare il lettore, a spalancare la visuale di chi legge su vette e abissi. E ciò grazie allo sguardo dell’autore, alla sua sensibilità gotica e onirica, che conduce gradino dopo gradino il lettore, un po’ come la vecchia proprietaria conduce il protagonista, in quella discesa agli inferi del suo/nostro inconscio che è appunto La stanza dei lumini rossi. Uno sguardo che si posa su ciascuno dei tre personaggi, così che le identità di tutti si disvelano per ancor più ri-velarsi, affiorano misteri dal passato di ciascuno che sembrano riflettersi gli uni negli altri, in un gioco di coincidenze che si infittisce fino ad assumere le cupe sembianze di un destino.

Più che di doppio, dunque, di moltiplicazione e rifrazione dovremmo parlare in Conoscenti, di un immillarsi dell’immagine di sé che scardina ogni barlume d’identità. È come entrare in quelle stanze da galleria degli orrori dove troviamo più di uno specchio e per di più deformante: il lettore, una volta inoltratosi nella storia, ha la sensazione di stare al centro di un caleidoscopio dove il gioco di rimandi, allusioni, echi stupisce, turba, depista, disorienta e finisce per comporre un disegno ipnotico e straniante ma perfetto nelle sue spericolate simmetrie, al centro del quale c’è il protagonista, che di questo disegno è la scaturigine o forse la proiezione.

Centralissima è l’esperienza del doppio nelle diverse declinazioni dell’eros raccontate in Quando mi apparve amore, dove il rapporto con l’altro si fa, a vicenda o in contemporanea, tramite e trauma del rapporto con se stessi. In particolare, nel racconto che dà il titolo alla raccolta e in Visione, una distanza ci divide, è come se l’oggetto d’amore fosse appunto quella lastra, forse di specchio forse no, che si frappone fra noi e noi stessi, ora a ricongiungere, ora a ulteriormente incrinare la nostra aspirazione all’unità. L’angelo che si mostra in sogno al protagonista col volto del ragazzo amato recante fra le braccia il suo stesso corpo esanime, leva a un certo punto lo sguardo e fissa il protagonista illuso d’essere spettatore invisibile della scena: guardami, e guardati, sembra dirgli, ti rendo a te stesso, poiché ti disconosci. Così come il protagonista di Visione che, abilmente raccontato in seconda persona, ci narra di un giovane alla ricerca di sé attraverso amori di ogni inclinazione e che infine si trova, o definitivamente si perde (in una scena che riecheggia tanto Poe quanto il Wilde del Ritratto di Dorian Gray, ma abbaglia per la sua personalissima forza poetica e filosofica) immergendosi in quello specchio che si scopre alla fine essere la voce narrante del racconto.

Da questo fiume carsico di drammi individuali in cui ciascuno può rintracciare la sostanza del proprio, vedo erompere la valenza politica della scrittura di Conoscenti. A cominciare dalla percezione della sua e mia città, Palermo.

Palermo, ovvero la città per antonomasia, quasi mai direttamente nominata nei testi di Conoscenti, ne La stanza dei lumini rossi appare per squarci, per rapide indicazioni toponomastiche, ma è prepotentemente presente nello sfondo meteorologico di quell’estate che conosciamo bene, quel caldo che può alterare la percezione del reale, allucinare, farci uscire fuori di noi nel senso dell’estasi come dell’alienazione, e richiamare imperiosamente al livello inconscio il «fiato del cetaceo». Palermo diviene così emblema del tepore intrauterino, della stasi inerte, dell’impossibilità di decidere di noi stessi, una vita non-vita alla quale un maledetto e irrinunciabile cordone ombelicale ci tiene stretti: l’eterno materno, che Conoscenti mette in scena nel suo romanzo ritraendo, tra l’altro, la condizione del meridionale che, se non a livello sociale e culturale, al livello di emancipazione psicologica è ancora immerso in una precultura di stampo matriarcale. La vicenda del celebre romanzo, infatti, è tutt’uno con questa condizione di sommersione semicosciente in un liquido avvolgente quanto asfissiante: sia l’amore-odio verso l’anziana proprietaria di casa, sia la relazione sado-maso con Luisa, la settentrionale che lo seduce, danno al protagonista un’illusione di riscatto e di liberazione proprio nel momento in cui più l’avviluppano e lo ingannano inchiodandolo allo stadio psichico di embrione.

Anche in alcuni racconti di Quando mi apparve amore Palermo appare l’ambientazione irrinunciabile delle vicende narrate: la vendetta di Cosimo in Vampe di San Giuseppe non può non consumarsi in una Palermo sorprendentemente fredda e piovosa, un bianco e nero che incarna perfettamente il contrasto coi ricordi di infanzia del protagonista: la calura estiva, con la doppia valenza che dicevamo sopra a proposito de La stanza (amore-odio, seduzione-repulsione, horror vacui-cupio dissolvi) si associa anche solo inconsciamente all’esperienza di un bambino venduto a un pervertito da cui pure si sente amato come da nessuno in famiglia. Cosimo, adesso adulto e consapevole di quanto ha subito, apre gli occhi sul suo passato e sul suo presente e ciò che vede è una città cupa, gelida, schiva, respingente, da lasciare senza rimpianti, una volta chiuso il cerchio delle violenze inflitte e subite. È come se in questo racconto Palermo rivelasse la sua vera faccia, come se l’irresistibile fascinazione dell’estate questo nascondesse, come se la Sirena che canta nella calura d’agosto stordendoci fino a volerne morire, scoprisse sott’acqua il suo volto mostruoso, il suo istinto famelico, la sua natura antropofaga e matrigna. In Alla Marina, in particolare, è un pezzo di città che assurge a correlativo oggettivo di una condizione esistenziale. La passeggiata lungo il Foro Italico, tradizionale ritrovo domenicale di famigliole ronzanti tra giostre e venditori di dolciumi, nasconde non solo il mare, reso inaccessibile da un luna park rimasto per decenni tanto abusivo quanto intoccabile, ma anche un limbo, una terra di mezzo dove avviene tutto quello che il resto della città non vuol vedere: incontri clandestini, adescamenti, smercio di corpi a buon mercato. Dove le mille luci del parco celano uno squallido dietro le quinte fatto di cavi, tubi e bombole di elio, in quel «posto di confine tra la civiltà e la natura», tra la zona di «buttane, froci, zingari e spacciatori» e il codazzo di gente perbene «suo necessario complemento» vi è l’unico spazio franco lasciato al contatto tra omosessuali, quello che passa per il meretricio, o comunque per l’incontro occasionale, lo sfogo di un momento da rimuovere in fretta prima di tornare a vestire i panni del padre o del figlio di famiglia. È questo lo scenario di tutti gli incontri più importanti della vita del protagonista, gay inibito e represso, che l’autore sceglie di riattraversare con l’uso del tempo presente. Come in quell’attimo prima della morte in cui, si dice, si rivede in un battito di ciglia tutta la propria vita, qui si ha la sensazione di vedere in contemporanea i quadri della vita del protagonista dalla primissima infanzia all’età matura come restassero lì, appesi a raccontare una esistenza incompiuta e perciò stesso rimasta congelata in un presente incapace di farsi passato. Allo stesso modo quel pezzo di città rimasto uguale per decenni tanto nell’aspetto quanto nella sua funzione sociale, (forse insieme al Sacco e al Teatro Massimo chiuso per vent’anni, il più vergognoso degli scandali di Palermo) appare anch’esso congelato in una quasi metafisica immutabilità scientemente finalizzata a persuaderci tutti, si direbbe, a una rassegnata accettazione dello statu quo. Soltanto nelle ultime battute una scena inattesa addita alla possibilità di un cambiamento, cambiamento che si riferisce al tema centrale del racconto, la percezione sociale dell’omosessualità, ma che è ancora una volta il paesaggio cittadino a descriverci attraverso una ideale ricomposizione della città non più separata dall’acqua da quel limbo di uomini e istinti banditi, che torna a essere «città fino al mare, oltre il nastro dell’asfalto e lo sterrato e le rade aiuole che fanno scorgere già dalla strada la presenza luccicante del mare». Questo cambiamento a Palermo è infine avvenuto. La passeggiata lungo il Foro Italico è stata restituita alla sua interezza, al dialogo tra mare e città, tra civiltà e natura. Parallelamente, non è più una visione di dantesca memoria quella di coppie omosessuali liberamente allacciate fra la gente. Oggi è dunque possibile affermare sia degli individui, sia della Città che abitano, che sanno finalmente «cosa voglia dire sentirsi intero, ricomposto, presente e visibile, riconciliato col cielo denso e striato, col mare che chiama eterno»?

È ancora presto per dirlo, e ultimamente tutto sembra piuttosto dire il contrario. La tensione che attraversa i testi di Conoscenti, la questione esistenziale dei suoi protagonisti, il suo doloroso ripensare la nostra storia recente hanno una radice e insieme una destinazione oggi più che mai politica, che anche e soprattutto nella lingua del sesso, nel racconto dell’eros, nel dispiegarsi dell’intimo si afferma con una forza rara nel panorama letterario, la forza di un vissuto che si fa poesia volando alto, lasciando a terra il politicamente corretto e le petizioni di principio ideologiche, verso una spiritualità laica dell’Amore.