Debora Caprioglio è Elena Muti ne “Il Piacere” di Gabriele D’Annunzio. Lo spettacolo, che andrà in scena domenica 4 agosto, alle 5 del mattino, con la regia e versione teatrale di Fausto Costantini, sarà la prima delle quattro “albe” nel teatro del Parco archeologico di Segesta, nell’ambito del Calatafimi Segesta Fetival Dionisiache 2019, con la direzione artistica di Nicasio Anzelmo. Musiche di Davide Cavuti, Costumi e grafica: Rocre, Suggestioni di luci e ombre dal vivo Silviombre (Spettacolo consigliato ai maggiori di 18 anni).
Il Piacere, pubblicato a Milano nel 1889, racconta le vicende di Andrea Sperelli, discendente da nobile famiglia, esteta raffinato e colto, tutto proteso a fare la propria vita come si fa un’opera d’arte. Il romanzo diviso in quattro parti, si apre con l’incontro fatale tra Andrea ed Elena Muti. Andrea ed Elena hanno una breve ma intensa storia d’amore, evidenziando come i due siano molto simili, al punto di affermare che Elena è il doppio femminile di Andrea. Entrambi hanno caratteri molto simili. Andrea, egoista, spietato, cinico e approfittatore. Elena non è da meno perché illude il protagonista mostrandosi dolce, gentile e passionale, quando in realtà lo disprezza ed evita. Al momento opportuno lo allontana e non vuole più vederlo, come se fosse una sorta di divertimento nel farlo prima innamorare e poi lasciarlo con disdegno. Tutto questo faceva anche Andrea prima di incontrare Elena: una storia dopo l’altra per puro gioco, senza preoccuparsi dei sentimenti altrui. Tutti e due hanno lo stesso gusto per il lusso, la ricercatezza, la rarità e la raffinatezza con forte interesse per arte e cultura. Andrea ama se stesso credendo di essere uomo particolare al di sopra della gente comune, alla ricerca di una donna che abbia la sua stessa ideologia.
Lo Spettacolo: È visto dagli occhi di Elena che rivive il rapporto con Andrea tra poesia e storia. Nell’attesa dopo anni dell’ennesimo incontro di passione, con descrizione di ambienti ed atmosfere minuziose come solo D’Annunzio riesce a fare, Elena si erge a figura di donna emancipata e seduttrice, priva di religiosità e pudore. Cosi come nella società odierna diviene sempre più coltivato l’erotismo unitamente all’arte della seduzione, Elena ritiene questa la via più semplice per ottenere ciò che si vuole. La sua capacità inebriante e carnale la rende unica artefice della perdizione dell’uomo, Andrea Sperelli. Nel nostro testo abbiamo inserito “La Passeggiata” di D’Annunzio, come elevazione poetica della donna in mezzo a tanta prosa. I versi collocati in punti strategici della riscrittura, rappresentano un’accelerazione continua di emozioni per lo spettatore ed energie nuove per la protagonista.
La messa in scena: La lettura è ambientata sul luogo dove una volta si è consumato il rapporto sfrenato tra i due. Il piacere come ricordo metafora, nel tempo passato ha spento le emozioni del rapporto antico, trasformandosi in attesa e gioia continuamente soffocata dal nascente rancore prima dell’addio definitivo. Sulla scena un enorme lenzuolo bianco copre ogni cosa (compreso il mobilio del passato). Una sorta di doppio sogno raccontato ora dagli occhi di lei, ora dagli occhi di lui. Debora Caprioglio è la graffiante interprete dello spettacolo tra espressioni e memoria, mostrandosi complice vera della Elena romanzata. Di tutte le mescolanze carnali questa è la più completa, tanto appagante, da rendere la versione scritta il naturale completamento nella figura dell’attrice. Fausto Costantini è un Andrea Sperelli piegato e invecchiato dal tempo mentre Silvio Gioia e le sue suggestioni di ombre ne è la memoria giovanile. Le musiche del maestro Davide Cavuti scandiscono i ritmi e l’atmosfera della messa in scena. L’idea scenica di Ludovica Costantini.
ECUBA DI EURIPIDE NEL TEATRO DEL PARCO DI SEGESTA DOMENICA 4 E LUNEDI’ 5
Una straordinaria interprete nei panni della regina di Troia, Francesca Benedetti è Ecuba e incarna una sofferenza senza fine, consumata in una disperata solitudine. Lo spettacolo andrà in scena domenica 4 e lunedì 5 agosto, alle 19,45, nel teatro del Parco archeologico di Segesta, nell’ambito del Calatafimi Segesta Fetival Dionisiache 2019.
Troia è caduta e in quel lembo di terra che separa il Chersoneso dalle macerie della città, le donne di Ilio attendono la sorte riservata ai vinti. Nella terra di Tracia i Greci aspettano venti propizi alla navigazione, che potrà essere ripresa solo dopo il sacrificio di Polissena, superstite principessa troiana. La vittima immolata dagli Achei costituirà l’estremo onore riservato ad Achille e favorirà il viaggio di ritorno. Ecuba, la regina di Troia, dovrà subire questa decisione, frutto dell’orrore del conflitto. La moglie di Priamo dovrà assistere a quest’ennesimo scempio in terra di Tracia, dove il più giovane dei suoi figli, Polidoro, è stato ucciso dal re Polimestore, al quale il ragazzo era stato affidato con un’ingente quantità d’oro nel tentativo di salvarlo. Questi i presupposti dell’azione drammatica che alimentano il dolore e i propositi di vendetta di Ecuba.
Protagonisti della tragedia sono i vinti: le donne troiane, testimoni di un eccidio etnico e culturale, simboleggiano la parte più vulnerabile della società, colpita senza pietà dalla guerra e da ogni forma di conflitto. Troia, infatti, potrebbe essere oggi qualsiasi città del Medio Oriente, devastata dalle orde barbariche del terrorismo islamico. L’analogia con la modernità è fin troppo evidente. La tragedia racconta da sempre l’olocausto dei popoli e l’insensatezza della violenza che diventa il principio disgregante dell’universo. La protagonista di Euripide incarna una sofferenza senza fine, consumata in una disperata solitudine: Ecuba rappresenta il dolore assoluto, senza alcuna catarsi. In questo scenario bellico, lo spettro della guerra si svuota di ogni significato ideologico e declina la violenza in tutte le sue oscene varianti che si propagano come una malattia senza cura, dai vincitori ai vinti; vittime e carnefici vengono così accomunati dalla sopraffazione. Ecuba, custode della memoria della stirpe troiana, annientata dai Greci, non lascerà scampo al traditore Polimestore, infliggendogli un castigo tremendo. Una madre senza patria e senza figli mette in scena un dolore trasfigurante, irripetibile a qualsiasi latitudine scenica, come ci ricorda Amleto citando la complessità dell’arte teatrale, a proposito dell’irrappresentabile dolore dell’eroina euripidea. Protagonista di quest’impresa è Francesca Benedetti, un’attrice multiforme ed emotivamente intelligente nel cogliere le peripezie dell’animo umano. Lo spettacolo ha un cast d’eccezione, con attori tra i più significativi della scena italiana. Viola Graziosi incarna Polissena, votata a un martirio consapevole ed eroico, Graziano Piazza è Taltibio, un messaggero dolente e composto, Ulisse, interpretato da Maurizio Palladino, si fa portatore dell’idea di una superiorità etnica, Agamennone, affidato a Sergio Basile, è un politico raffinato e destinato alla solitudine, Polimestore, uomo avido e senza scrupoli al limite del grottesco, viene impersonato da Gian Luigi Fogacci, Maria Cristina Fioretti ed Elisabetta Arosio completano il cast, raccontando con accenti lirici le donne troiane, vittime di guerra. In un momento di assenza di pace in cui i teatri di guerra sono molteplici, raccontare gli orrori della violenza è un dovere etico che valica l’aspetto estetico e ritrova le sue ragioni più profonde nel dibattito democratico, che solo il linguaggio scenico sa rendere evidente, nella sua necessità. La drammaturgia di Euripide raffigura l’ineluttabilità della storia umana e l’indifferenza degli dei, spettatori attoniti e crudeli di fronte allo stupefacente spettacolo del mondo.
La regia è di Giuseppe Argirò, con Francesca Benedetti, Graziano Piazza, Viola Graziosi, Sergio Basile, Maurizio Palladino, Elisabetta Arosio, Gianluca Fogacci, Maria Cristina Fioretti.
NOTTI IN MUSICA, SULLA COLLINA DEL TEMPIO DEL PARCO DI SEGESTA DOMENICA 4 ALLE 00,30 MIMMO CAFIERO OPEN BAND
Sempre nell’ambito del Calatafimi Segesta Festival Dionisiache 2019, per le Notti in musica nel Parco archeologico di Segesta, sulla Collina del Tempio, domenica 4 agosto, alle 00,30 Mimmo Cafiero Open Band. Mimmo Cafiero da parecchi anni arrangia e compone, e dedica i suoi progetti alla Sicilia, parlando di amore e sacrificio tra il tenero e l’amaro. La musica contenuta nei suoi CD “Triangles" (1996), "Plays Sicilian Songs" (2001), e “Vitti ‘na Strada” (2008) è così: si sente la passione inesauribile, vertiginosa e pregnante per la vita e la musica e c'è lo sforzo di cambiare le cose, magari solo grazie ad una canzone. La particolarità della sua musica è incentrata sulla esposizione di semplici melodie attraverso giochi ritmici e poliritmici dai quali scaturiscono atmosfere sempre accattivanti, che offrono agli ascoltatori momenti costantemente imprevedibili, ricchi di mediterraneità, alla ricerca di nuovi linguaggi, nel rispetto comunque delle tradizioni. Nicola Caminiti al sax, Giuseppe Mirabella alla chitarra, Stefano India al basso, Mimmo Cafiero alla batteria e Sam Mortellaro al piano.
A CALATAFIMI SEGESTA DOMENICA 4 AGOSTO ALLE 21,30 “PICCIRIDDA STIDDA”
Ispirato alla storia della bambina palermitana morta nel 1920, Rosalia, l’ospite più illustre della cripta dei Cappuccini, a Palermo, per il misterioso e stupefacente lavoro di imbalsamazione che l’ha mantenuta intatta e rosea come una piccola dormiente, il monologo immagina che l’anima della bambina, intrappolata nel corpo dal processo chimico d’imbalsamazione, cerchi di fuggire, interpellando chi la guarda ma non può vederla, ripercorrendo la propria storia, cercando ancora i genitori, tra cantilene infantili e grida disperate, prigioniera innocente che intenerisce e sgomenta.
“Picciridda stidda”, nell’ambito del “Calatafimi Segesta Festival Dioniasiache 2019” andrà in scena domenica 4 agosto alla Circiara di Calatafimi, alle ore 21.30, con la regia di Francesco Randazzo. Protagonista Sebastiana Eriu, costumi Dora Argento, opera pittorica Angela Gallaro, assistente alla regia Giusy Andolina, luci Domenico Di Stefano.
“L'occasione del mio incontro con lei – spiega il regista Francesco Randazzo - è stato propiziato dalla proposta di Giusi Cataldo, ideatrice e organizzatrice della “Notte di zucchero”, a Palermo, un grande evento per le festività dei defunti, che ha coinvolto molti artisti e moltissimo pubblico, per una grande festa che recupera e ravviva le tradizioni siciliane, in contrapposizione alla festa di importazione americana di Halloween. Una sezione era dedicata al teatro e Giusi mi ha chiesto se volevo partecipare scrivendo un testo. Così, ho iniziato a pensare ai Cappuccini, al culto dei morti, a tutto quello che prima ho qui raccontato. Di Rosalia, sapevo, l’avevo vista in foto e in un bel documentario del National Geographic. Quando poi si è realizzata la coincidenza che l’attrice disponibile per un mio testo era Sebastiana Eriu, brava attrice palermitana, minuta, piccolina come una siciliana antica – prosegue - la decisione di scrivere un testo ispirato alla mummia picciridda, è quasi venuta da sé. La morte di una creatura bambina, colpisce e turba, più che quella di un adulto, ovviamente. Ma la morte di Rosalia è ancora più straziante, perché è l'unica mummia di tutta la cripta dei Cappuccini di Palermo e, credo, del mondo, che non ha l’aspetto, né l'inevitabile avvizzimento della morte. In mezzo a cadaveri disseccati, bocche spalancate o serrate di denti digrignanti, mani scheletriche, volti eternamente fissati in espressioni terrificanti – aggiunge Randazzo - lei sembra una bimba che si sia perduta in mezzo all’orrore e alla desolazione della morte, e per fuggire alla troppa paura, all’eccesso della scarnificazione intorno a lei, si sia addormentata, nell'attesa che qualcuno venga a riprenderla”.
“Il processo chimico di mummificazione del geniale tassidermista, rimasto misterioso, per tantissimo tempo, l’ha resa visivamente sospesa tra la realtà della vita e quella della morte. È per me – sottolinea il regista - inevitabile pensare ai genitori, allo strazio per la morte della loro bambina e l’altrettanto straziante fissità del suo corpicino, intatto, roseo, innocentemente assopito e per sempre visibile, un conforto certo, ma sicuramente, nello scorrere del tempo e della vita, un rinnovare per sempre il dolore, sempre presente nella grazia del loro poterla rivedere sempre per come era, e sempre soffrire della sua morte, senza la possibilità che ad ognuno è dato, di piangere ed elaborare il lutto dei propri cari, grazie anche alla loro fisica assenza, che ce li allontana crudelmente è vero, ma ci da anche modo di custodirli nel cuore, leniti tra le nuvole dei ricordi. Rosalia invece no, da quasi cento anni, è là, come la bella addormentata. I suoi genitori non ci sono più, lei è ancora là”. “Questo, a pensarci bene – racconta Francesco Randazzo - fa scorrere un brivido di compassione, oltre che per la morte, per l’ostensione dell'innocenza di quel tenerissimo cadaverino. Voglio dire che la grazia della perfetta conservazione, in assenza della vita, del tempo, degli affetti, mi suscita una tristezza, come se le si aggravi l'anima e la imprigioni. Ho rivisto me, bambino, di fronte alla morte e immaginato lei là, bloccata, circondata da tutti gli altri morti. Io ero vivo e potei fuggire, lei no. Da questo misterioso incontro, tra ricordi e paure riesumate – prosegue sempre il regista - ho cominciato a vederla, sentirla parlare, cantare, scriverla. Naturalmente questa è la Rosalia che vedo io, le sensazioni che mi suscita, la commozione e lo sgomento che si trasfigurano in qualcos'altro, in qualcun altro, che è ispirato da lei, ma non è più soltanto lei. Diviene in me e nel mio testo, simbolo poetico e drammatico, metafora della sofferenza e dell’innocenza. Tutto è frutto d’immaginazione, la mia, che va creando un’altra storia, un’altra Rosalia. Anima bambina che racchiude tutte le creature che soffrono e muoiono troppo presto. Nella finzione poetica questo è possibile, sublimare, immaginare, rendere verosimile l'impossibile, attraverso piccole bugie della fantasia, fabbricare castelli d'invenzione, abitati dalle emozioni, dei personaggi e nostri. Avrei potuto cambiare il nome alla bambina – spiega sempre Randazzo - ma Rosalia è nome talmente simbolico ed emblematico, non solo per Palermo, ma per tutta la Sicilia, è un nome talmente bello, e lieve, profumato di purezza, che ho voluto mantenerlo. Nessun altro nome, né cognome, nient’altro che una bambina, che ho immaginato, a causa di troppo amore, che ha sfidato le leggi del tempo, imprigionata tra i due mondi, metafora delle nostre innocenze infantili, imprigionate nel tempo che le ha sbiadite o cancellate, e che infine torneranno, per volare in alto, chissà dove, chissà quando. La piccola che riposa nella vera cripta, dorme serenamente il sonno della morte, la sua anima è libera, in pace”, conclude il regista.