Ventisette anni fa se ne andava Franco Franchi, l’altra parte, il doppio, di Ciccio Ingrassia, palermitani, pezzi unici di un mondo che aveva trovato nell’espediente comico la possibilità di sfuggire, trascendere la fame. Massimo Benenato, suo figlio, racconta adesso che Franco (Franchi è il nome d’arte) si sarebbe ammalato in seguito alle accuse di contiguità con i mafiosi, contestazioni dalle quali si vide infine completamente prosciolto. Gli si imputava d’essersi esibito in occasione di alcuni banchetti di nozze di gente di mafia. L’uomo ne aveva molto sofferto, la persona non se ne capacitava. Di lui ho ricordi affettuosi, netti, cominciando dalla mia memoria di bambino, con nonno, al cinema “Eden” di via Antonio Furitano, a Palermo, non c’era film della coppia che non vedessi, e ancora, molti anni dopo, ricordi diretti, io e lui insieme, nel “suo” bar di piazza Cantù, a Roma, dove l’Appia Nuova sembra indicare la direzione per i Castelli, e lì accanto, subito a sinistra, appare via delle Cave, dove Franco abitava insieme alla famiglia. Anche Ciccio Ingrassia risiedeva nei pressi, la stessa Roma che sfiora San Lorenzo e i Cessati Spiriti, in via dei Monti Tiburtini, luoghi che Renzo Vespignani ha messo in pittura.
Quasi tutte le sere, lo raggiungevo lì, Franco seduto dietro la cassa, il trench blu e, come mitria cardinalizia, un feltro Borsalino color vinaccia avuto in dono dal principe de Curtis, Totò, lo stesso che gli aveva insegnato un modo perfetto per descrivere i limiti dei colleghi: «Ha tre note, e le altre quattro dove sono?». Era meraviglioso guardare Blob insieme, sovente trasmettevano la sua convinta interpretazione di “If” di Kipling – «Se sei capace di mantenere la testa quando tutti vicino a te la perdono, e se la prendono con te. Se sei capace di fidarti di te stesso quando tutti gli altri ne dubitano, ma tenendo conto anche del loro dubbio» – in quella circostanza lo mettevo ingenuamente in guardia, gli dicevo: «Franco, ti stanno prendendo per il culo, lo sai?». Non era vero, aveva ragione lui, era un omaggio proprio all’attore da parte di Raitre, anche Angelo Guglielmi lo apprezzava molto. Franco, pochi lo sanno, aveva passione per la astronomia, ho detto astronomia, non astrologia, dunque nessuno zodiaco, semmai il cosmo, i pianeti, le ipotesi del “Big Bang”, Franco diceva: «Non sarà che, a un certo punto, Dio ha tirato lo sciacquone e da quel gesto è nato tutto?», avrebbe voluto anche portare questo suo interesse scientifico in scena, farne un suo film, così gli regalai un libro fotografico che da anni, mai sfogliato, custodivo in casa, Catalogo dell’universo di Paul Murdin e David Allen; lo gradì molto.
Si sentiva amareggiato per le accuse di mafia: raccontava di essere stato ricevuto da Giovanni Falcone e che questi lo rassicurò. Sembra anzi avergli detto testualmente: «Io non ho niente su di lei sulla mia scrivania, torni pure a casa tranquillamente e non ci pensi più». Con Franco Franchi, da palermitani a Roma, era altrettanto meraviglioso andare a spasso, sconfinare dall’Appio Tuscolano fino a via Veneto: e che ridere, che senso di felicità liberatoria, da palermitani nel cosmo, sentirgli rispondere a un acchiappino che provava a offrirci delle passeggiatrici in abito da sera verde matrimoniale con un meraviglioso “Suca!”.Anche quella sera Franco indossava il feltro avuto in dono da Totò. Era malinconico, come sempre accade ai maestri di comicità: Franco la indossava, sapeva vestirla, e intanto, parlando di smacchi professionali, raccontava l’offerta di un ruolo ne Il nome della rosa, peccato che l’avessero truccato rendendolo irriconoscibile, da qui il suo rifiuto. Ora che ci penso, ci eravamo però conosciuti a Palermo, nel 1979, nella sua casa affacciata sul porto, mi aveva accolto in accappatoio, di un arancione squillante, i capelli resi ricci dalla permanente per ragioni di copione, diceva «… li ho così perché voglio imitare Gheddafi, siamo identici, abbiamo la stessa faccia, se mi ci metto, peccato che non me lo facciano fare per ragioni politiche». Alle sue spalle, un ritratto in costume da nobile in parrucca del tempo della rivoluzione francese, cimelio scenografico dell’avventura cinematografica di I due sanculotti. Lo stesso giorno raccontava di quando, insieme a Ciccio Ingrassia, avevano recitato con Buster Keaton nel film Due marines e un generale, loro i marines, Keaton era invece ufficiale della Wehrmacht, così in attesa di ritrovare i panni del tempo perduto del muto addosso a uno spaventapasseri. Era una pellicola diretta da Luigi Scattini nel 1965, dove l’attore pronuncia perfino una parola, un “Grazie”, allontanandosi poi di schiena, proprio come al tempo della gloria. La signora Keaton raccontava loro che Buster viveva decorando una sorta di piatti del buon ricordo, vendendoli tirava avanti; con Ciccio, da palermitani nel cosmo del cinema, Franco diceva di avere provato timidezza davanti a un colosso di Hollywood trasmigrato, come un povero derelitto, fin dentro il sonoro in technicolor dell’Italia degli anni Sessanta. Raccontava poi l’incontro con Pier Paolo Pasolini durante la lavorazione di Che cosa sono le nuvole?, il volto serio, l’intelligenza, la cultura, la gentilezza, e di come si fossero sentiti risarciti grazie a quel film che parodiava la storia di Otello.
Raccontava ancora di quanto il cinema italiano avesse sfruttato il loro successo ai botteghini, salvo poi, da un certo punto della storia nazionale non solo cinematografica, quasi abbandonarli, come scarti comici, strada facendo. L’ho detto che era malinconico? L’ho detto che mi mostrava le analisi cliniche appena ritirate aggiungendo che il medico lo aveva comunque rassicurato riguardo allo stato del suo fegato? Lo stesso fegato che infine lo ha tradito. Poi, se non l’ho ancora detto, va aggiunto che era uno straordinario pittore, con i pastelli a olio realizzava disegni mirabili, degni del più struggente realismo magico, gli servivano, quasi come ex-voto, a raccontare se stesso e la sua storia sul palcoscenico, la sua avventura di comico miracolato dal talento, in uno di questi Franco appare in primo piano, dietro c’è Ciccio che lo cinge con lunghe braccia e mani sottili da lucertola, in quel pastello che mostra l’entusiasmo degli esordi in strada, a Palermo, tra palchetti poveri e il marciapiede antistante il cinema “Finocchiaro”, Franco e Ciccio sembrano dirsi: dai, ce la faremo, riusciremo anche questa volta, a sopravvivere alla fame. Non ho detto però con esattezza che sia Franco sia Ciccio venivano da una Palermo profonda, e la fame raccontavano di aver la partita, facendo ogni genere di mestieri, anche il “panellaro”, e mentre diceva così, proprio lui, Franco, riproduceva il gesto di tirare fuori proprio le panelle dall’olio bollente… Straordinario era anche nel modo di approcciarsi alla clientela notturna, da una certa ora infatti il bar Cantù vedeva passare ogni genere di bestiario umano, con lui bravissimo a rintuzzare anche gli avventori di una Roma a perdita d’occhio.
Poi, Ciccio, compagno di strada ma anche, per ragioni caratteriali, la sua croce. Se Franco Franchi infatti era il palermitano forte di una generosità comica che si riverberava anche negli autografi dove appariva la sua caricatura, l’altro, Ciccio Ingrassia, riassumeva il siciliano “inglese”, a suo modo ombroso, un rapporto, al di là della separazione che avrà infine luogo, riassumibile nella volta in cui Franco telefona all’amico, al sodale, al fratello di scena per dirgli esattamente così: «Ciccio, ci vuole Raffaella Carrà a Domenica in, che dici andiamo?».
E Ingrassia, di risposta: «No, domenica non posso, semmai lunedì». Mentre raccontava questo dettaglio Franco, alla fine, vinto, arreso, aggiungeva scuotendo la testa: «… che vuoi che dirgli a uno che ti risponde in questo modo? Eppure aveva un ottimo mestiere prima di mettersi a fare l’attore, era bravissimo a tagliare le suole delle scarpe…». Anni fa, Franco Maresco e Daniele Cipri vollero fare loro un omaggio, un film-tributo intitolato Come inguaiammo il cinema italiano, per riassumere l’epica del tempo in cui la coppia riempiva le sale di quartiere, così come avveniva al “mio” cinema “Eden”, a Palermo, nei giorni dell’infanzia; mi sembra di rivederli in I due figli di Ringo o piuttosto nella parodia della serie di 007, con Franco che emerge dalla riva, una gallina sulla testa, mimetizzato come accade altrove a Sean Connery, l’originale. Che sensazione infine d’irriproducibilità di un tempo, dell’Italia al mattino, quando bastava sentir dire “soprassediamo” per esplodere in una risata, era un attimo appena e immediatamente Franco saltava in braccio all’amico, raccontava, proprio Franco, che nei tribunali, i cancellieri, dovettero cassare quest’espressione procedurale perché ogni qualvolta veniva pronunciato un “soprassediamo” perfino il reo, il povero imputato dai ceppi ai polsi, non riusciva a smettere di ridere.
Il Riformista - Fulvio Abbate