Vent’anni fa si consumava a Trapani la più grande tragedia dell’immigrazione legata all’universo detentivo costituito dai centri di permanenza temporanea.
Il rogo in cui persero la vita Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti, Nasim all’interno del “Serraino Vulpitta” rimane un momento fondamentale per comprendere il dramma dell’immigrazione in Europa. Una strage avvenuta sulla terraferma, a due passi dalle nostre case, all’interno di una struttura voluta e concepita dalle istituzioni per annientare la libertà degli “indesiderati”. Una tragedia per la quale la giustizia italiana non seppe individuare alcun colpevole.
Se dovessimo fermarci ai numeri, la storia delle migrazioni contemporanee ha certamente registrato (e continua purtroppo a farlo) stragi ben più consistenti.
Non è una questione di numeri, ovviamente. Anche una sola esistenza sacrificata sull’altare delle frontiere rappresenta un delitto insopportabile nei confronti dell’umanità intera. Proprio per questo motivo, le sei vittime del “Serraino Vulpitta” continuano a chiamarci in causa, ancora oggi.
Dopo vent’anni, nell’analisi della fase attuale, siamo costretti – ancora una volta – a denunciare le problematiche di sempre.
I centri di detenzione (che oggi si chiamano CPR – Centri per il Rimpatrio) sono ancora attivi, anche se in misura ridotta. I canali legali di ingresso in Italia sono sempre inaccessibili con il risultato che la gente continua ad affrontare viaggi pericolosissimi per mare e per terra.
La criminalizzazione nei confronti dei migranti e di tutte le minoranze continua ad avvelenare il clima politico già abbastanza intossicato dalla propaganda dei cosiddetti “sovranisti” (un eufemismo dietro al quale si nascondono i soliti razzisti e fascisti) e dai loro media di riferimento.
Nel momento in cui scriviamo, le navi Mare Jonio e Alex (della piattaforma solidale Mediterranea) e la Eleonore della Ong Lifeline sono ancora bloccate nei porti per effetto del decreto sicurezza bis e della feroce campagna politica e mediatica che si è dispiegata negli ultimi due anni contro le organizzazioni umanitarie impegnate nei soccorsi in mare aperto. Pertanto, se qualcuno aveva sperato in un qualche segnale di discontinuità con l’insediamento del nuovo governo e la scomparsa della Lega dall’esecutivo, ha fatto male i conti.
Tanto per fare un esempio, con una circolare del 19 Dicembre il Ministero dell’Interno ha dato esecuzione a quanto previsto dal primo decreto sicurezza voluto dall’ex ministro Matteo Salvini: l’abrogazione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Questo significa che dal 1° Gennaio i richiedenti asilo e i titolari di protezione umanitaria saranno esclusi dal sistema dell’accoglienza con tutte le prevedibili conseguenze in termini di precarietà, impoverimento, disperazione. Un rischio concreto di fronte al quale, solo nelle ultime ore, il Viminale ha promesso che nessuno sarà lasciato per strada. Vedremo.
Di sicuro, le uniche condizioni che, nel corso degli anni, si sono mantenute costanti sono quelle che garantiscono lo sfruttamento selvaggio dei lavoratori immigrati (come nelle campagne della provincia di Trapani, ad esempio), la tratta delle prostitute, la clandestinità diffusa, i lauti affari del padronato e delle mafie sotto lo sguardo indolente e complice delle stesse istituzioni.
Nonostante l’intollerabilità di un sistema profondamente ingiusto e ipocrita, la propaganda razzista ha sfondato nell’immaginario collettivo della società italiana, sempre più carica di livore e disprezzo nei confronti degli immigrati, considerati – oggi più di ieri – il capro espiatorio per tutto ciò che non funziona in questo paese.
A noi sembra, invece, che le cause della crisi dalla quale l’Italia non sembra in grado di uscire siano riconducibili a ben altro. Non è colpa degli immigrati se in Italia il lavoro non c’è o, se c’è, è sottopagato e precario. E non è colpa degli immigrati se in molte aree del paese (specialmente al Sud) si stanno consumando veri e propri drammi occupazionali (si pensi all’Ilva di Taranto, alla Whirlpool di Napoli, ad Almaviva a Palermo, alla Blutec di Termini Imerese, ma anche alla clamorosa chiusura di Mercatone Uno a Bologna o alla crisi delle acciaierie di Piombino).
E, restando ancorati a questo territorio, non ci sembra che sia stato per colpa degli immigrati se l’aeroporto civile di Birgi è sprofondato nella crisi che tutti conosciamo o se i Cantieri navali di Trapani sono andati letteralmente in malora.
Le responsabilità del disastro del sistema paese vanno ricercate, invece, in una classe politica impreparata e impresentabile, nella ferocia di un sistema capitalistico sempre più vorace e predatorio, nel progressivo indebolimento della coscienza civile e democratica di tutto il corpo sociale, sempre meno abituato a battersi per i propri diritti, sempre meno capace di distinguere le vittime dai carnefici, sempre meno avvezzo a riconoscere i soprusi e a valorizzare la solidarietà.
Eppure, un’altra Italia c’è e resiste, lo sappiamo bene. È l’Italia delle lotte che, seppur frammentate, cercano di porre un argine al dilagare della barbarie, alla devastazione dei territori, all’inquinamento, alla militarizzazione. È l’Italia delle associazioni e degli individui che si mobilitano per salvare vite umane contrastando materialmente gli effetti nefasti delle politiche razziste. C’è un’Italia che – da Nord a Sud – costruisce reti solidali per far fronte alla povertà, ai licenziamenti, alla mancanza di lavoro o di alloggi, al razzismo, alle discriminazioni di ogni tipo.
È un’Italia la cui voce viene sommersa dagli strepiti di un dibattito pubblico sguaiato e intossicato. In questo senso, ci sembra assai condivisibile pretendere dai politici un linguaggio più sobrio e una comunicazione istituzionale più trasparente e meno aggressiva. Ed è altrettanto condivisibile la mobilitazione per l’abolizione del decreto sicurezza, ci mancherebbe altro. Ma quando il doveroso contrasto alle destre razziste e fasciste è stimolato quasi esclusivamente da mere esigenze elettorali, senza essere sostenuto da una analisi complessiva delle dinamiche sociali e politiche che ci hanno portato alla condizione attuale, il rischio è quello di non cogliere le contraddizioni del sistema e le responsabilità vecchie e nuove dei finti progressisti che governano il paese e che, di fatto, spianano la strada alle oscene provocazioni dei reazionari.
Coordinamento per la Pace - Trapani