di Marco Marino
Il vino, diceva il poeta Alceo, è il mezzo attraverso cui leggere l’uomo. E non soltanto per indagare le ragioni nascoste del suo animo, potremmo obiettare oggi. La cultura della vite infatti è anche un’efficacissima spia per riconoscere il grado di civiltà e di progresso di un popolo.
Per evitare di ridiscendere fino all’antica Grecia, basterà pensare alla rivoluzione industriale cominciata in Sicilia nel 1774, quando un tale John Woodhouse intuisce le potenzialità commerciali di un vino con caratteristiche simili ai vitigni iberici e prova a venderlo come vino all'uso di Madera. Naturalmente, stiamo parlando del marsala.
È una storia, quella dei vini siciliani, in generale, e del vino marsala, in particolare, che trova tra i suoi maggiori studiosi lo storico Rosario Lentini. Che oggi, alle Cantine Pellegrino, alle ore 18, presenterà il suo nuovo lavoro, Sicilie del vino nell’800 (Palermo University Press), insieme a Giovanni Alagna, Paolo Inglese e Antonino Giuffrida.
Abbiamo voluto approfittare dell’occasione per chiedere al professor Lentini alcune anticipazioni su quanto dirà questo pomeriggio, ma anche per rivolgergli alcune curiosità su un altro suo preziosissimo libro, ripubblicato qualche mese fa dalla casa editrice Sellerio, L’età dei Florio. Che a Marsala, è risaputo, si trova in un binomio inscindibile con la parola vino.
Vorrei cominciare col chiederle di quell’architettura a più piani che è L’età dei Florio. In che modo è nato?
Sellerio aveva chiesto al professor Romualdo Giuffrida di scrivere un saggio di storia economica sulla famiglia Florio. E Giuffrida, conoscendomi già da qualche anno, gli propose subito di associarmi alla pubblicazione. Ero tornato da Firenze con una tesi di laurea dedicata proprio ai Florio e a Palermo avevo continuato le mie ricerche presso alcuni archivi per rilevare documentazioni inedite. Nello specifico, ero riuscito a portare alla luce tutta una serie di carte che riguardavano la parte delle origini, dell’arrivo dei Florio, della drogheria e della gestione dei primi anni di attività.
Tutti conosciamo il nome dei Florio per fama, eppure pochissimi di noi ne conoscono effettivamente la storia. Secondo lei, da cosa dipende?
Trentaquattro anni fa non si sapeva granché su di loro. Oggi non è più così, solo che i testi di storici e di specialisti non hanno la divulgazione e la diffusione che può avere un romanzo o un testo più leggero. Innanzitutto bisogna considerare che non ci troviamo di fronte a un personaggio in particolare, ma una famiglia di quattro generazioni, dalla fine Settecento alla prima metà degli anni Cinquanta del Novecento.
Come inizia la loro storia?
Con l’arrivo di Paolo Florio, che insieme al cognato Paolo Barbaro, aveva creato una piccola società di commercio tra Bagnara Calabra e Palermo. Palermo era la capitale di un regno, un luogo ricchissimo di opportunità. La morte di un loro compaesano, don Domenico Bottari, proprietario di una spezieria nel cuore mercantile della città, in via dei Materassai, aveva spinto la povera vedova a vendere la bottega con tutti gli aromi e le spezie. I due cognati rilevano la bottega e da lì comincia l’attività della drogheria. E non solo.
Da una piccola aromateria all’edificazione di un grande impero, seguito poco dopo da un terribile declino. Sembra di trovarsi di fronte a una storia “italianissima”.
No, non è una questione italiana o siciliana. È una questione di capitalismo di famiglia. Direi che è quasi fisiologico dopo tre generazioni. Non è che tutti possono nascere con la passione del grande industriale. È andata bene a Paolo, prima, e a Vincenzo, dopo, di aver avuto dei figli capaci e brillanti. La quarta generazione ha trovato qualche problema in questo passaggio: quando muore il senatore Ignazio Florio, suo figlio, Ignazio jr, ha appena 22 anni, non ha fatto alcun apprendistato e non ha alcun tipo di attitudine imprenditoriale. E ci sono altre concause e differenze.
Quali?
L’ultimo Ignazio non eredita semplicemente un’aromateria; si ritrova tra le mani un gruppo industriale complesso. Non ci si può improvvisare capo di un gruppo senza esperienza o attitudine.
Il volume non si intitola I Florio, ma L’età dei Florio. Un titolo che si rivela un’ottima chiave di lettura per leggere il tempo in cui vivono… e che hanno influenzato?
Non c’è dubbio, hanno segnato la modernità. Ignazio jr, anche se non ha avuto quelle intuizioni imprenditoriali del nonno, non per questo ha avuto un ruolo minore nel denotare la modernità del suo tempo. Viene adottato come modello da emulare, impone i parametri di rappresentanza sociale: è il borghese della nuova generazione, che fa moda e che raccoglie attorno a sé i giovani della borghesia palermitana e no. Il Modernismo e il Liberty hanno trovato alimento e spinta proprio in questa generazione di giovani rampolli di fine Ottocento. Vincenzo, Ignazio, Ignazio jr hanno marcato i confini di quella che definiamo modernità ottocentesca, ecco perché si può parlare dell’Età dei Florio, perché su di essa hanno decisamente lasciato il loro segno.
Il loro momento di massimo splendore, però, coincide paradossalmente con la loro rovina.
Non trovo sia un paradosso. Per lungo tempo si è protratto il teorema del complotto, e soprattutto le interpretazioni sicilianiste e vittimiste, per cui i Florio sarebbero scomparsi per un improvviso colpo di mano del capitalismo settentrionale. Non è affatto così. Ci sono i problemi di cui accennavo e c’è da considerare anche il sostenimento della mitologia che facevano di se stessi. Una vita di yacht, ville, viaggi nelle principali località turistiche, sontuosi matrimoni. Tutto quello che serve a costruire il mito; e i miti per sopravvivere non hanno bisogno poi di una solidità industriale, vanno molto oltre quello che è il sostrato economico di una famiglia. Se invece vogliamo chiederci perché i Florio non hanno voluto vedere, fino all’ultimo momento, che dietro questa facciata si stava sbriciolando l’intero gruppo finanziario, bisogna considerare un ulteriore aspetto.
A quale aspetto si riferisce?
A fine Ottocento non c’è solo un passaggio generazionale molto critico che viene affrontato in modo inadeguato dal nuovo erede, c’è soprattutto un mutamento di scenario. L’Ottocento aveva i suoi riti, le sue modalità, che cambiano completamente con il Novecento: l’industriale novecentesco non è quello che si occupa di tutto, ma quello che si specializza. I settori delle nuove imprese moderne non sono più quelle che venivano gestite dal nonno Vincenzo. Se non eri capace di intuirlo, continuavi a stare nel jet set europeo in primissimo piano, ma le tue aziende cominciavano a non avere più mercato. E le uniche aziende che continueranno, anche dopo il fallimento, alla fine si ridurranno ad essere il vino Marsala e le tonnare delle Egadi.
Alla ripubblicazione del volume sui Florio segue quest’anno la nascita del suo nuovo lavoro, Sicilie del vino nell’800, che presenta oggi a Marsala. Ci può anticipare qualcosa?
Ho messo insieme vari elementi raccolti in tanti anni di ricerche, negli archivi pubblici e privati, per comporre un mosaico finalmente leggibile sia sull’origine dell'enologia di stampo inglese sia sull’origine di stampo francese. Per verificare quale sia stata nel corso dell’Ottocento l’influenza che queste due tracce hanno avuto nella storia dell’enologia siciliana. E quindi ho preso in esame quattro grandi case vinicole che hanno fatto storia, cioè i Woodhouse e gli Ingham-Whitaker, per quel che riguarda la storia del marsala; e le altre due aziende, Henry d’Aumale e l’azienda dei Duchi di Salaparuta che si avvalgono di un enologo di Bordeaux per mettere in piedi una vera enologia da pasto. Il confronto tra queste due esperienze - ricostruito in maniera molto analitica e dettagliata, avvalendomi di documentazione del tutto inedita - ha permesso di dare una rappresentazione completamente nuova al tema dell’enologia siciliana.