E' reato divulgare i dati sanitari di una persona. In piena emergenza coronavirus la diffusione di dati sensibili sui profili social, anche se fatto nell'interesse di sensibilizzare o di un interesse che riguarda la salute pubblica è un reato. Lo chiarisce Ruben Razzante, docente di Diritto dell'informazione all'Università Cattolica di Milano.
"Il diritto alla privacy non è un diritto assoluto - afferma Razzante -. Esiste un “equilibrio mobile”, un necessario e doveroso bilanciamento tra la protezione dei dati personali e altri diritti. In una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo, non v'è dubbio che il diritto alla privacy, anche su dati sensibili di natura sanitaria, possa risultare compresso dalla necessità di perseguire un obiettivo di interesse pubblico generale preminente, in questo caso il diritto alla salute pubblica. Ma questo riguarda le istituzioni deputate a tutelare quel diritto, non certo i social. Non è lecita e si configura come un reato la divulgazione, su un profilo social, di dati sensibili di natura sanitaria riguardanti terze persone. A meno che non sia il diretto interessato a fare coming out sul proprio profilo e a comunicare di essere risultato positivo al Coronavirus dopo un tampone".
La deontologia giornalistica in questi casi è molto chiara sul punto: i dati sanitari non possono essere divulgati e quindi un giornalista non ha il diritto di pubblicare l'identità di persone contagiate o di renderle riconoscibili. Sono diverse le dichiarazioni spontanee di personaggi pubblici che hanno annunciato di essere risultati positivi al virus. "In questo caso il giornalista - dice Razzante - ha il dovere di riportare quelle dichiarazioni, ma in tutti gli altri casi le notizie relative all'identità delle persone contagiate non sono divulgabili".