Le rughe che tracciano i nostri volti - col tempo ne prendiamo sempre più consapevolezza - non sono altro che la mappa completa di tutte le strade che abbiamo attraversato. Lo sapeva bene Vittorio Gregotti, universalmente riconosciuto come uno dei maggiori architetti del XX secolo, vittima ieri a Milano del Coronavirus.
Era nato a Novara nel 1927; una vita romanzesca, la sua. Quasi un secolo vissuto tra l’architettura e la teoria dell’architettura, inseguendo un’idea basilare: qualunque struttura si pensi, non può vivere di pura astrattezza, ma deve necessariamente ancorarsi nella memoria della città in cui sta per essere edificata.
Portano la sua firma il Teatro degli Arcimboldi di Milano, lo Stadio Luigi Ferraris di Genova, il Centro Cultural de Belém di Lisbona. Ma sue opere disegnano lo skyline di moltissime città mediterranee.
Tra i lavori più ambiziosi e più osteggiati, bisogna certo ricordare il progetto del quartiere ZEN di Palermo, cominciato nel 1969. Gregotti denunciò da subito le infiltrazioni mafiose nelle fasi di appalto, che inevitabilmente condannarono la sua utopia urbana al fallimento.
Come le rughe sui nostri volti riflettono le strade in cui abbiamo vissuto, allo stesso modo la geografia di ogni città, vista dall’altro, restituisce a chi osserva l’immagine di volti sospesi tra gli edifici.
Tra quei volti, sorridente e visionario, appare il profilo di Vittorio Gregotti.