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19/03/2020 12:00:00

Dalle zone rosse, diario dal disastro. I malati sono persone

 di Domenico Cacopardo

19 marzo 2020

Oggi, la contabilità nazionale dei decessi per Covid-19 darà un numero superiore a quello cinese: l’Italia conquisterà un triste primato destinato, nei tempi brevi, a consolidarsi. A suggello le immagini del telegiornale con decine di salme ingestibili a Brescia, caricate sui camion che le distribuiranno tra i crematori del Nord.

Vediamo, peraltro, tutti quanto l’abnegazione del personale sanitario si sia dispiegata ovunque. Quanto l’amore per i concittadini ancora prima della professionalità (priva di uno specifico e riconosciuto rimedio) sia venuto in soccorso delle migliaia di ricoverati normali o in terapia intensiva.

Reduce come sono da recenti operazioni nell’Ospedale di Parma, sono gratificato dall’amicizia di alcuni medici che mi hanno assistito e con i quali sono in contatto. Più per manifestare loro sentimenti di affetto e di vicinanza, anche se, lo capisco benissimo, le loro telefonate hanno la speciale connotazione del controllo per accertare, insomma, se io e mia moglie stiamo bene e non presentiamo sintomi preoccupanti. Detto fra di noi -vi raccomando di tacere- i sintomi si presentano nei modi più disparati e con frequenza. Un dolore al braccio, un pizzicore alla gola, un colpo di tosse. Ieri, per esempio, ho aperto la scatola di metallo destinata alla frutta secca, ho preso una manciata di gherigli di noce, un pezzetto di pane e mi sono concesso una straordinaria delizia gastronomica. Ebbene, qualche granello ha sbagliato strada e, invece, di scendere verso lo stomaco, s’è arrestato in prossimità dell’apparato respiratorio. Insomma, per una decina di minuti sono stato squassato dalla tosse, una tosse così forte da farmi dire: “Arrivau”. Già, anche se ho lasciato la Sicilia per il continente nel settembre 1947, quando penso o quando sono spinto da un’emozione, irrefrenabile emerge il dialetto, anzi la lingua della Sicilia peloritana e dello Stretto, quella sublimata in Horcynus Orca, di Stefano D’Arrigo. Un libro che io - rara avis parvo -, avvantaggiato dalla contiguità (Alì, il paese di D’Arrigo dista una decina di chilometri da Letojanni) ho letto prima d’un fiato, poi lentamente, assaporandone il gusto, talora intimo e celato. Ho ancora negli occhi la scena in cui il protagonista fabbricante di barche colpito da ictus indica con gli occhi alla moglie le mosse da fare per portare a termine uno dei natanti del cantiere in attesa di ultimazione e di consegna.

In questi giorni di clausura domestica, sarebbe bello che almeno dalle mie parti qualcuno avesse l’idea e il coraggio di proporne la lettura via radio. Almeno un pezzo della generazione attuale di messinesi, figli di una città che ha perso ruolo e anima, percorsa com’è stata da avventurieri che ne hanno spolpato i miseri resti, potrebbe ritrovare, attraverso D’Arrigo il senso di un’appartenenza a un luogo e a una storia che è stata splendida e importante nel bacino del Mediterraneo. Gratificata da un fiorente commercio, dalla presenza di artisti e banchieri oltre che di opifici di cui s’è persa la memoria, ma non i manufatti (gli arazzi), presenti in alcune delle collezioni più significative d’Europa. Se non ricordo male anche l’arazzeria del Duomo di Marsala conserva, tra le altre, qualche opera di filanda messinese.

Chiudo la divagazione e torno ai medici dell’Ospedale di Parma. Qui, introdotta da alcuni primari dotati di una visione moderna e umanistica della loro professione, domina il culto dell’empatia. Dal momento in cui un cittadino varca la soglia dell’Ospedale o del Pronto soccorso, il personale deve trattarlo con affetto partecipe. Con immedesimazione. Aspetto, questo, che rende così speciale e permanente il rapporto medico paziente.

Ieri sera, sul tardi, ho parlato con uno di loro, reduce da una giornata di servizio in uno dei reparti destinati alla cura dei malati di Covid-19. Non mi ha detto «ho visto tanti malati», ma «ho conosciuto tante persone». Segno evidente di quello speciale approccio di cui dicevo prima: i malati sono persone, prima che pazienti. Nella conversazione, poi, m’ha raccontato un particolare che vi porgo, tanto è illuminante e significativo. Premetto che una delle prescrizioni destinate ai cittadini e ai sanitari è quella di bere molto e spesso. Ebbene, scafandrati come sono (e per scafandrarsi debbono essere in due: uno scafandra l’altro per evitare errori di scafandramento), subiscono un’intensa sudorazione. Ma non possono bere, giacché nel caso insorgesse l’esigenza di fare pipì dovrebbero essere aiutati a descafandrarsi, visto che queste complesse tute, costruite per garantire l’impermeabilità dal contagio, non prevedono alcun pertugio utilizzabile per la ristorante manovra.

Con questo particolare, che può indurre al sorriso, per oggi chiudo e ricordo a tutti #iostoincasa #noistiamoincasa.