di Domenico Cacopardo
23 marzo 2020
Solo stasera si saprà se il piccolo, minuscolo barlume apparso ieri e consistente in un minimo flesso del numero dei contagiati sarà confermato. Se lo fosse e se poi, domani e dopodomani si constatasse un trend di miglioramento generale, potremmo immaginare che il nemico stia dando segni di stanchezza. Ma questo non dovrà spingerci ad abbandonare le cautele adottate da quasi tutti, giacché abbiamo a che fare con un agente subdolo pronto a ripresentarsi nei guariti o ad attaccare d’improvviso chi abbandonasse guanti e mascherine e si avventurasse per le vie deserte della sua città.
Resta il fatto, incontrovertibile, di cui probabilmente nelle zone meno esposte e colpite non c’è consapevolezza, della prova di eroismo e di abnegazione che sta dando il personale sanitario e tutto il volontariato impegnato nel trasporto degli ammalati. Una prova che deve renderci orgogliosi di essere italiani e concittadini partecipi o spettatori di uno sforzo sovrumano che il nostro sistema sanitario non aveva mai, per fortuna, dovuto sostenere. Ne usciremo, quando ne usciremo, più forti e più forti in alcune convinzioni che difficilmente diventeranno consapevolezza politica, scelte parlamentari e di governo.
Già è più probabile che, passata la buriana, la politica politicante torni a scontrarsi su temi propri dei partiti e dei loro piccoli interessi, piuttosto che affrontare in uno sforzo comune il titanico compito della ricostruzione. Del resto, già in queste ore, col morto in casa, si litiga nella speranza di conquistare un poco solo un poco di visibilità un domani trasformabile in consenso elettorale. Questo nonostante il noto Pagnoncelli abbia stamattina dichiarato alla radio che i numeri del consenso non assistono chi oggi fa casino segnatamente Salvini e Meloni.
Lo scontro politico, peraltro, non è mai cessato, giacché dietro le quinte Lombardia e Veneto hanno sempre dissentito e il governo dal canto suo non le ha certo sostenute.
E qui torna il discorso tragico delle insufficienze generali nella gestione della crisi.
Non dobbiamo dare retta ai laudatores imperium sull’ammirazione mondiale di cui il Modello italiano sarebbe destinatario. Da ultimo il New York Times, in un servizio a firma Jason Horowitz, Emma Bubola e Elisabetta Povoledo del 20 marzo, scrive che «La tragedia che l’Italia sta vivendo rappresenta un monito per gli altri Paesi europei e per gli Stati Uniti, dove il virus sta arrivando con la stessa velocità. Se l’esperienza italiana ha qualcosa da insegnare è che le misure per isolare le aree colpite e per limitare gli spostamenti della popolazione devono essere adottate immediatamente, messe in atto con assoluta chiarezza e fatte rispettare rigorosamente.» Il che significa che siamo un esempio negativo di incertezze e cambi di rotta.
In definitiva, non possiamo che rifarci ai numeri. I quasi 60.000 contagiati accertati, più un numero indefinito e indefinibile di portatori asintomatici del virus, i 5.476 (al 22.3) morti sono i numeri di una grave sconfitta nella battaglia in corso. E di evidenti errori di chi dovrebbe dirigere le operazioni. Come i numeri della Lombardia sono un feroce atto di accusa ai suoi amministratori e alle modalità di gestione della lotta.
E poi non dobbiamo cercare un appiglio di sicurezza nella prospettiva che, venendo la bella stagione il virus perda virulenza restituendoci a una vita quasi normale.
Dobbiamo invece immaginare o sapere che il dopo si svilupperà in un clima rivoluzionario, nel quale molti vorranno fare i conti con l’attualità, i suoi errori, i suoi disastri, soprattutto, i suoi uomini. Basterà l’innesco giusto, un incidente o uno scontro qualsiasi per avviare il Paese sulla via delle sommosse, del rifiuto di questa realtà politica, del riequilibrio sociale ed economico.
A noi siciliani compete peraltro un compito speciale: impedire che ogni movimento post-pandemia sia consapevolmente o inconsapevolmente veicolo per il dilagare del crimine mafioso.