di Domenico Cacopardo
25 marzo 2020
Credetemi non ce la faccio più a scrivere questo diario, sommando giorno dopo giorno le cattive notizie che mi giungono dai posti più disparati della città e della provincia.
C’è un effetto depressivo che, unito alla palpabili insufficienze del governo nazionale e di quelli regionali, si concretizza prima di tutto su di me, spedendomi sulle vie della commozione o, peggio, dell’autocommiserazione.
Oggi vi dirò che la situazione è stazionaria. E che questa stazionarietà è ciò che fa dire a molti che la pandemia è in regresso. Eppure i dati di martedì della regione
Lombardia non spingevano a ottimistiche considerazioni.
Comunque, la macchina è in modo. In modo confusionario e, talora contraddittorio, la moltitudine di coloro che sono addetti ai lavori sta realizzando passi in avanti di rilievo anche in rapporto alla differenzazione degli ospedali per il Covid-19 dagli altri.
Oggi, non siamo in mezzo al guado, ma non ci siamo lontani.
Oggi, tanto per cambiare tono, porgerò ai lettori di Tp24 il primo di una serie di raccontini sui miei tempi andati in Sicilia, madre della mia famiglia e un po’ matrigna secondo il perenne immarcescibile ossimoro della coesistenza sotto lo stesso cielo della giustizia e del crimine. Anche se -e lo dico in tutta riservatezza, pregandovi di tenerlo per voi- io non sono convinto che, per esempio, Giovanni Falcone e Totò Riina venissero dallo stesso mondo siciliano, coperto dal medesimo cielo. Nella realtà storica e attuale crimine e giustizia appartengono a mondi diversi e non mescolabili e se anche Falcone e Riina fossero nati nel medesimo palazzo apparterrebbero a mondi distanti anni luce tra di loro.
Coerente con l’inizio odierno di questo diario, cercherò da darvi qualche minuto di lieta distrazione raccontandovi quindi della casa di mio nonno, costruita in riva al mare intorno al 1750 da un avo dal desueto, ma, allora, prestigioso nome di Teodoro.
Questa casa era proprio una gran casa, fatta di antri, misteri e nascondigli. Era da esplorare tutta, quella casa, e ogni volta che ci tornavo passavo le ore dell’arrivo a riscoprirla cantone per cantone. Si entrava in un atrio spazioso, sedie ai muri e al centro un biliardo –una Carambola- intorno al quale mio padre e i suoi cugini disputavano interminabili partite. Il lampadario sovrastava l’ambiente con un lungo braccio di ferro, importante e imponente: nessuno in paese né a Taormina aveva un simile lampadario. Sul braccio, tante lampadine elettriche coperte da cappucci di stoffa verde che spingevano la luce giù sul panno anch’esso verde che rivestiva il piano di lavagna. Un tempo c’erano state le candele coi colatoi necessari per impedire alla cera di riversarsi sul piano di gioco, ma minuscoli per evitare che gettassero le loro ombre sotto.
Le partite provocavano sempre discussioni interminabili e quando il tono della voce si alzava troppo, zia Clemenza spediva le domestiche Alfia e Itria e don Calorio con bibite, mostarde e mostaccioli. Tutta roba rigorosamente fatta in casa.
Così ogni vertenza si placava e il gioco poteva riprendere in allegria. Io ci stavo le ore a guardarli mentre giocavano e il profumo del tabacco, pipe, sigari e sigarette in continuazione tra le labbra screpolate, mi piaceva e, forse, eccitava la mia fantasia. Mi sentivo grande coi grandi a vederli giocare e mi ero proprio appassionato a quel gioco geometrico imparando rinterzi e rinquarti: la palla, prima di toccare il boccino e la bilia dell’avversario, doveva in un caso prendere due e nell’altro tre volte le sponde. Sapevo bene che solo gli artisti del panno verde sceglievano la Carambola, mentre il popolaccio di sale da biliardo e bische si divertiva con Boccette Bazzica e Italiana.
E poi una volta don Saverio, mio padre, mentre aspettavamo di cenare, mi disse: «Questa sera tieniti leggero e, dopo mangiato, ti faccio provare …»
Io capii, ma domandai lo stesso: «Padre, che cosa mi volete far provare?»
«Come, non capisti?», rispose, sorridendo. «Il biliardo provare ti faccio. Se hai la tendenza e sarai bravo, una partita contro zio Totò e davanti al nonno giocherai.»
Quella sera l’esame di biliardo tête-à-tête lo superai di corsa: don Saverio non sapeva che quando tutti erano sprofondati nel sonno, scendevo, prendevo stecca e gesso e giocavo da solo. Avevo fatto quarantadue carambole così, una volta. E l’indomani, finita una partita a quattro, mio padre si volse a suo fratello Totò: «Gioca col ragazzo, mettilo alla prova.» In realtà, mi aveva chiamato picciotto, una parola che nella nostra antica lingua significa giovanotto.
Mio zio era un tipo ‘ncazzoso e lo guardò stupito. Una partita con me che avevo soltanto sedici anni e mezzo, lui che era stato alla corte del Kediveé –figuriamoci! In Egitto, in una città chiamata Il Cairo (piramidi harem e minareti. E una inquietante sfinge antica)- come consigliere e che si era mangiato al poker una fortuna. Poi, muovendo la mano come dire “È inutile tentare”, commentò, la voce stridula come una lama di coltello sul metallo: «… Il rum… quanto ne vuoi … tanto non serve …»
Mi sembrò una condanna senza alcun appello, ma non capii cosa c’entrasse il rum.
Mio padre, però, insistette: «Chiamo papà, vi vuole vedere.»
Mio nonno don Mimì, diminutivo di Domenico il mio medesimo nome e soprannome, arrivò proprio allora come se fosse stato avvisato da qualcuno.
Zio Totò, chissà perché, rise di cuore e mi invitò con la mano.
Il nonno puntò l’occhio su di me e ordinò: «Mimì, una stecca prenditi e gesso assai. Quando sarai pronto comincerete. Di rinquarto ve la fate.»
Aveva scelto di rinquarto, la più difficile giocata.
Mi venne il sospetto che qualcuno m’avesse scoperto mentre m’ingegnavo a imparare e ci fosse stata una spiata proprio nell’orecchio del nonno.
Ma non mi emozionai. Rimasi freddo come la lavagna d’una scuola e vinsi la mano. Tirai trentacinque palle una dietro l’altra con lo zio ch’era sorpreso e ammirato.
Quando toccò a lui, borbottò verso mio padre: «A me non me la fate. Questo l’avete allenato di notte, quando dormivamo. Ma io lo sistemerò. Non pensate di trasformare la partita in malafigura di don Totò, gentiluomo di vita e di livello, frequentatore di nobili e sovrani. Mi sto compiacendo di permettere a Mimì di provare contro di me. Punto: una volta e basta. Poi potrà allenarsi con qualche pescatore d’Acitrezza di quelli che frequentano don Ciccio.»
L’unico infimo bar biliardo del paese era gestito da un certo don Ciccino, da Catania.
Ma dopo dodici palle sbagliò un rinquarto e io gli stampai sessantasei carambole una dopo l’altra: le bilie me le ero sistemate vicine un palmo e toc e toc colpetto su colpetto, le sponde in sequenza preordinata ricevevano la palla e la mandavano là dov’io volevo, gli stampai proprio sessantasei carambole e vinsi la partita, a centouno si vinceva.
Don Mimì batté le mani, spense il sigaro per terra e se la filò.
Zio Totò non era generoso, ma conosceva il mondo: mi abbracciò e mi fece i complimenti. Poi aggiunse: «Quando arriva Jano lo fottiamo. Io e te contro lui e chi gli piace. Li fottiamo dieci partite su dieci partite da una lira. Vedrai, un bel regalo ti regalerò.»
Pensai alla libreria Principato e ai suoi libri di avventura, gli dissi «Sissignore» e me ne andai. Avevo da scrivere il tema d’italiano e il lunedì il professor Silvani l’avrebbe letto per primo come sempre, tirandomi le orecchie ogni volta che incontrava una fesseria, una locuzione di dialetto, uno sbaglio di ortografia.
Rimasto solo con mio padre, volli levarmi la curiosità e gli chiesi: «Ma che c’entrava il rum non ho capito…»
Lui scoppiò in una risata di quelle di cuore a bocca larga e mi rispose: «Vedi, nella sua vita avventurosa mio fratello Totò è stato a lungo anche a Napoli, la vecchia nostra capitale. Mio nonno don Saverio era giudice borbonico, lo sai. Ebbene lì, a Napoli, tante ne hanno imparate e, tra queste, quella del rum…» Si fermò a osservarmi per sapere se l’avevo seguito attentamente.
Io non m’ero perso una parola e, senza aprir bocca, feci l’espressione assorta per dire “Andate avanti, padre spiegate...”
Lui si passò le dita tra i capelli e sulla nuca come quando era imbarazzato e aggiunse: «A Napoli l’adagio popolare recita che per quanto rum ci puoi versare ‘u strunzu non diventa mai babà’…» E ancora ridendo, mi dette una pacca sulla spalla: «Però gli hai dimostrato ch’eri un babà vero, il babà del tavolo verde della Carambola speciale.»