di Domenico Cacopardo
26 marzo 2020
La situazione va migliorando «Ma», dice mio cugino che è più vecchio di me e, se scapola il virus, presto ne compirà 100 di anni, «non bisogna fidarsi, perché quando tutti usciranno per le strade in un’esplosione di gioia generale, noi che siamo grandini …» , dice proprio così, anzi con me mescola dialetto e lingua in modo che il “grandini” si trasforma in “rannuzzi”, cioè grandicelli, «… saremo più esposti al contagio e più fragili perché, abbassata la guardia, ce lo potremmo prendere.»
In realtà qualcosa del genere dicono in tutti i notiziari, nel senso che il flesso dei contagi è confermato e, ogni giorno, crescono del 28/29%, ma il nemico è subdolo e infame, cosicché capita che un medico che è passato indenne dall’incontro con decine di pazienti normali e che ora, tutto bardato, si sentiva al riparo dal contagio, si svegli ieri mattina con qualche linea di febbre e scopra di averlo, nonostante i giorni trascorsi da ignaro e indenne, il maledetto virus.
Tuttavia -ed è questa la ricetta che, come fanno tanti che danno consigli anche a schiovere, vi consegno- fate qualcosa di interessante e nuovo. Oggi ho avuto un colloquio Skype con un grande giornalista e tra ieri sera e stamattina mi sono dovuto preparare, leggendo un suo libro capitale (nel senso che è un’opera che dovrebbe essere letta nelle scuole e approfonditamente insegnata) salvo poi -come sempre mi accade avere dimenticato tutto ciò che volevo chiedergli ed avere parlato sì del suo libro sulla mafia, tralasciando le domande intelligenti, quelle che m’ero ben preparato.
E bevete un bicchiere di vino buono a pranzo e a cena. Fa sangue e fa dormire bene.
Stamattina, è arrivato il freddo. Alle 7 la radio annunciava neve su Bologna, Reggio Emilia e Parma, saltando, chissà perché, l’intermedia Modena. Ma a quest’ora -sono le 4- non s’è visto un fiocco: solo acqua gelida, quella che se non sei davanti a un caminetto ti penetra nelle ossa. E qui non dispongo di caminetti, solo di termosifoni che sono un’altra cosa.
Se ieri avete gradito l’accenno alla casa di mio nonno, leggete quanto segue. Altrimenti saltate anche senza salutare. Non mi offendo.
Dall’androne munito di biliardo, si saliva al primo piano e si entrava in un’anticamera. Nella parete di fronte c’era un’antica cassapanca di famiglia, dipinta di colore grigio con riquadri floreali. Una volta, quand’ero bambino, d’accordo con zia Clemenza m’ero nascosto lì, mentre mio nonno tornava dalla caccia con mio padre e zio Totò. Quando entrava, smontavano i fucili e li deponevano nella cassa panca. Così, quando contenti delle quaglie che avevano preso e del comportamento del cane Vedo (un nome strano e inconfondibile) stavano per riporre le custodie con le armi e mio padre alzò il coperchio, io saltai fuori come un grillo, tanto che tutti, compresa zia Clemenza che sapeva tutto, si misero a gridare. Ripensandoci, qualche giorno dopo, e ripensando a qualche simpatico commento, mi venne il dubbio che fosse tutta preparata quella scena e la sorpresa non fosse affatto tale.
Dalla stessa anticamera si accedeva alla stanza da pranzo, un luogo che amavo e la cui memoria ho ancora nelle narici. C’era, infatti, una dispensa, lunga quanto il muro, dalla quale proveniva un intenso profumo di biscotti e pane fresco. E, quando mio nonno don Mimì aveva voglia, in quel vasto ambiente, si tenevano i pranzi di famiglia con zii e cugini sino al terzo grado. Quelli che ricordo di più e meglio erano quelli della fine dell’estate. Anno dopo anno, sempre a settembre inoltrato, il tempo rinfrescato e il mare pescoso come mai. Allora scendeva da Nicosia, la città dei ventiquattro baroni, l’amico di mio nonno, il cavaliere Mario Giangrasso, che chiamavano tutti il gran normanno per motivi che allora ignoravo. M’ero convinto che venisse dalla Normandia e che fosse in Sicilia per qualche nobile ragione. Scoprii più tardi, da grande, che invece il gran normanno era chiamato gran normanno perché Nicosia era città strana di gente strana – lo scrisse Luigi Capuana - nella quale si parlava una lingua sconosciuta, il gallo-italico, un idioma portato dai normanni e la gente credeva che così si parlasse in Normandia. Che poi era la lingua in uso nel lodigiano, nel piacentino, nel novarese, da dove venivano i lavoratori che Costanza d’Altavilla aveva fatto venire a incivilire i piccoli e neri saraceni senza dio che popolavano a quei tempi la Sicilia. Mentre, ai nostri giorni solo gente timorata di Dio e della legge, la occupa questa Sicilia amata e rispettata tanto che la sua natura selvaggia e aspra, ma talora benigna e gradevole non è stata toccata in alcun modo e le sue spiagge splendono della vegetazione e dei panorami che il Dio di cui sopra le ha regalato.
Dunque, quando arrivava Giangrasso si cucinava l’aringa - chissà perché a Letojanni, sull’Ionio ora cupo ora celeste, zona di pesce gustoso e vario, si dovesse ricorrere all’aringa affumicata, pesce del Nord, che si poteva comprare solo a Messina, in via Tommaso Cannizzaro, da Dagnino, la putìa di un genovese raffinato nella quale si trovavano le specialità dell’alta Italia -. E si beveva un vino bianco comprato da don Liborio, detto u’ parrineddu, perché figlio di un exseminarista. Il vino di casa, forte e generoso, era rosso.
Veniva acceso u’ fucuni e le aringhe, una a testa e due per l’ospite don Mario, venivano lentamente arrostite. Ogni tanto la domestica Alfia, attenta al fuoco, versava su quei pesci qualche goccia d’olio nostro del podere Saccuni di Roccafiorita, giusto per mantenerli morbidi e gustosi. Mandavano un profumo inebriante: tutti erano in visibilio e, nell’attesa, mangiavano maccheroni di casa e stigghioli di crapetto fatte al sugo.
Anche Alfia e don Calorio avevano diritto alla loro aringa, a un bicchiere di vino e a mezza vastedda di pane ripiena di verdura ripassata.
Giangrasso raccontava storie di Nicosia, le liti interminabili tra nicoleti, devoti di san Nicola, e mariani, devoti della Madonna, e le rivolte, l’ultima proprio nel ’26, diretta da una donna. E aveva un modo suo particolare di esprimersi che ricordava Giufà e ci faceva ridere tutti quanti, quanti eravamo nella stanza. Diceva: «Al mio paese … » e giù a ridere; diceva «Fra’ Felice …» e giù a ridere. Lui non s’adombrava, anzi era contento di quel ridere allegro, spensierato. Il nonno gli domandava di parlare come si parlava nella sua città –città era Nicosia e non villaggio- e lui faceva «Bzrrr…» «Gmam …» «Anghm …» E noi di nuovo giù a ridere a crepapelle. Alla fine, dopo il sigaro Toscano, c’era il riposino: gli riservavano la stanza d’angolo a don Mario perché dormisse bene della grossa. E, infatti, ci dormiva così bene che il suo russare giungeva sino alla cucina.
E, quando si svegliavano, lui e il nonno si ritiravano nello studio e discutevano, discutevano a bassa voce fitto fitto. Se alzavano la voce era per criticare De Gasperi e Togliatti e per ricordare i bei tempi di Giolitti e compagnia cantante. Prima o dopo ricordavano, con aggettivi malevoli e offensivi, di una nostra parente che si diceva fosse stata l’amante di Francesco Crispi e che aveva ottenuto l’annullamento del matrimonio per impotenza. Ero piccolo e non capivo bene di quale potenza si trattasse e non potevo immaginare parlassero della capacità produttiva del marito che, dopo l’annullamento, s’era risposato generando con la moglie nuova, al netto di altre storie che non voglio rivelare, dieci figli.
Quando don Mario e il nonno erano nello studio, nessuno li poteva disturbare, finché non veniva l’ora della cena che era leggera, erba selvatica, i cauliceddi, saltata in padella e pesce d’uovo. Poi al mattino presto Calorio col calesse lo accompagnava alla stazione ferroviaria, l’ospite che avremmo rivisto un anno dopo.
Don Calorio era l’uomo di casa: al mattino veniva con la scecca dall’orto, con verdura e frutti appena colti. Scaricava e riempieva due giare d’acqua fresca del pozzo al centro del giardino e andava avanti finché il serbatoio sistemato nel solaio non fosse così pieno da garantire l’uso giornaliero, compreso il bagno del nonno una volta la settimana.
Un giorno, sarà stato il ‘51, dopo la partenza di Giangrasso, era spuntato zio Totò per la sua colazione all’inglese, uova fritte e ben di Dio vari. Non s’era accorto di me, ch’ero nascosto dal secretaire, s’era seduto a tavola e aveva domandato al nonno: «Il maestro è partito?»
Lui aveva risposto un «Sì» stizzito e aveva chiuso la discussione.
A quei tempi non sapevo che nel mondo oltre ai maestri di scuola esistessero altri maestri alcuni dei quali erano definiti grandi.