di Domenico Cacopardo
27 marzo 2020
La sensazione che le cosiddette autorità sanitarie cui compete la direzione della lotta all’epidemia stiano procedendo a occhi chiusi, senza un piano ben definito senza le tecnicalità necessarie per misurare e localizzare i nuovi contagi, i nuovi decessi.
Eclatante il caso Lombardia. Qui ieri, sono stati riscontrati tanti, troppi nuovi contagi e troppi decessi. Senza tornare indietro al 20 febbraio, giorno della scoperta del paziente 1 a Codogno (6 gg fa) i numeri condannano la gestione dell’emergenza, nonostante Fontana, presidente della Regione, dichiari che “la ragione … (dell’aumento deriva dal numero di tamponi effettuati).” Se questa è la scusante consegnatagli dai suoi esperti, evidentemente l’informazione non è stata controllata e sottoposta a verifica. Le parole di Fontana contengono un sofisma o mantengono nell’implicito un dato dirimente: i tamponi vanno contati in rapporto alla popolazione non in assoluto. E l’esame proporzionale ci dice che è il Veneto ad avere operato uno screening su più cittadini della Lombardia in rapporto agli abitanti. È il Veneto ad avere svolto il tampone su un numero più significativo di abitanti.
Naturalmente non stiamo sofisticando ma segnalando un caso che dovrebbe occupare il giorno e la notte dei leghisti milanesi. Individuare dove s’è sbagliato e si sbaglia è essenziale per cambiare rotta e combattere efficacemente la pandemia.
Distraiamoci, che è meglio e torniamo alla casa di mio nonno, venduta dopo che un malandrino, appaltatore del comune, aveva scritto su FB riferendosi a me: «Ittamulu a mari cc'una petra o coddu», il che vuol dire che proponeva di buttarmi a mare con una pietra al collo. Oltre a minacce varie se per caso avessi rimesso piede nell’amato paesello. Il maresciallo dei Carabinieri subito informato con la stampa della minaccia, mi aveva rassicurato: «È un buon ragazzo, non lo farebbe mai» e, credo, richiuse il libro. Affrettai la vendita e me ne andai con mobili e famiglia. Non mi sono fatto imporre l’ostracismo e sono sistematicamente tornato per guardare in faccia i noti amici del malandrino.
Oggi, voglio porgervi un altro episodio su mio nonno, zia Clemenza, collocato nel 1956. Quell’anno era uscita la Fiat 600 e con il nuovo modello mio padre aveva sostituito la vecchia Topolino giardinetta.
Verso il 6 di agosto partimmo verso Letojanni, dove mio nonno ci aspettava con tutti gli onori, compresa la catalana di polpo, piatto preferito da mee da mio padre.
Avevamo imboccato, l’Autostrada Napoli-Pompei ed eravamo in prossimità di San Giorgio a Cremano. Lì il motore perse giri e non ne volle sapere in alcun modo di ripartire. Conoscevamo il concessionario che ci aveva venduto l’auto e dopo una serrata discussione ci acconciammo a dormire in un alberghetto. Al mattino, verso le 8 e 30, spuntò il carro-attrezzi con un meccanico. In 10 minuti riattivò il contatto e, felicemente, partimmo per arrivare in Sicilia dopo le 9 della sera. Allora non c’era l’autostrada e il viaggio era un’Odissea.
Ci insediammo a casa e riprendemmo la solita vita del mare. Come ho già raccontato che, sul tetto, proprio in corrispondenza, era sistemata una bella cisterna. Dato che non c’era l’acquedotto, don Calorio andava e veniva tutto il giorno con le quartare (da 25 lt). Le riempiva al pozzo che corredava il casale, le caricava sull’asino e le portava sino a casa nostra. Saliva bestemmiando le scale sin su - l’ultima rampa era di legno e ripidissima -, svuotava e ripartiva. Le sue parole stizzose erano una litania come quelle di chiesa e lui un celebrante devoto sembrava ripetendole una dopo l’altra sempre le stesse nell’ordine medesimo dalla Madonna a san Firmino, che solo Calorio nominava al mio paese. La gente lo sfotteva con questo san Firmino. Per la via i picciotti gli chiedevano: «Calorio, Calorio dove lo prendesti a san Firmino? Eh? Eh?» Lui continuava per la strada e solo se incontrava persona di rispetto che gli poneva la medesima domanda rispondeva: «Nel ’98 il militare in Italia quattro anni e quattro mesi feci. Sul lago di Como che sembra un mare quant’è bello …»
Non tutti i visitatori erano gradevoli e divertenti. Ricordo come un incubo le visite dei cugini in terzo grado Ilio e Verena Maen, persone dall’età indefinibile, vestite sempre allo stesso modo, estate, primavera e inverno. Lei un collettino bianco, leggermente liso negli orli, lui una giacca troppo grande e troppo lunga, di un colore grigio quasi nero. E una tristezza nei volti una lentezza nel profferir parola una cupezza generale che gettava gli altri nello sconforto più profondo, tanto che girava voce che portassero seco la jettatura forte, anche se mai si poté provare. Discendevano da un tedesco della Slesia che aveva sposato una cugina del bisnonno. Stavano alla Praiola, una masseria sulla strada di Gallodoro e spuntavano all’improvviso, quasi all’ora della cena che normalmente scoccava alle otto e mezzo. Quindi, verso le sette e tre quarti, arrivavano i Maen. Un po’ per dispetto un po’ per semplice antipatia, il nonno, sempre aperto e ospitale, non li invitava mai a fermarsi. “Per evitare che ci prendano uso, abuso e piacere”, diceva. Comunque non se ne andavano mai, tanto che una sera, l’ultima volta che si videro, poiché, offesi, non ritennero più di potersi presentare, il nonno volgendosi a sua sorella Clemenza, le domandò: «Da quale cominciamo?»
La donna che ne sapeva una più del diavolo capì al volo e gli rispose: «Da quello dell’antenato.»
Tutti restarono interdetti, finché il nonno non chiarì che, vista l’ora tarda e non andandosene i cugini Maen, aveva deciso di abbandonare il campo e di traslocare, domandando a sua sorella da quale dei quadri di famiglia dovesse iniziare lo sgombero. La battuta, a parte le vittime, ebbe successo, tanto che quando qualche visita si prolungava oltre il previsto il nonno si rivolgeva a donna Clemenza ed esclamava soltanto: «I quadri!».
E la voce s’era sparsa tra parenti e amici in modo che quando qualcuno sentiva l’espressione “I quadri” capiva che doveva andarsene senza disturbare oltre.
A me che avevo assistito alla prima scena in pochi giorni mi venne un rimorso grave per come avevamo trattato i disgraziati cugini.