di Domenico Cacopardo
29 marzo 2020
«All’inferno e ritorno», è la versione italiana di un film del 1955, diretto da Jesse Hibbs, protagonista Audie Murphy, che racconta la storia del più decorato soldato d’America durante la Seconda guerra mondiale.
«All’inferno e ritorno», ho pensato stamattina, quando il dottore - il prof. Gianfranco Cervellin, da poco in pensione, rientrato in servizio per dirigere un reparto Covid19, persona di grandi qualità umane e professionali - ha escluso che il violento attacco febbrile di venerdì scorso, alla luce della sua evoluzione, possa essere attribuito al Coronavirus. In queste quarant’otto ore, infatti, mi è passato davanti agli occhi il paesaggio desolato che stiamo attraversando, in fondo al quale rimangono - e si intravvedono - le nostre bellezze naturali, ancorché oggetto di scempio da parte di nostri connazionali, corregionali, concittadini.
E, facendo due conti, mi sono reso conto che, nonostante la conclamata e vantata sanità italiana, il sistema è quello che è. O non può essere che quello che è: cioè un ordine realizzato per un certo numero di pazienti delle patologie comuni (non rare) incapace di moltiplicarsi in numero di sanitari e di posti letto in ragione di una pandemia inattesa e così violenta da riproporre la drammatica storia della «spagnola», nata durante la Prima guerra mondiale e sviluppatasi in un paio d’anni, che, nel mondo, provocò 20 milioni di vittime. Mio padre, ufficiale del Genio guastatori (uno dei corpi d’arma che dette il maggior numero di caduti nell’Esercito italiano), dopo la vittoria, venne ricoverato nell’Ospedale militare di Feltre, raccontava che medici e crocerossine erano tutti mobilitati con amore e attenzione, ma l’assenza di una specifica terapia, faceva sì che gli elementi più deboli (i feriti, per esempio) soccombessero.
Ora, ed è questo che dobbiamo considerare, i limiti del sistema sanitario debbono imporre a tutti un atteggiamento cauto e attento, certo per se stessi, ma soprattutto per gli altri che potrebbero subire le conseguenze della nostra disinvoltura.
Ora, sdrammatizziamo?
Sì, se volete (una dubitativa retorica, direbbe il linguista).
Vi racconterò una storia ministeriale. Erano i primi anni ’60 e io ero in stanza con un collega di pochi anni più anziano: un signore d’altri tempi di Lacedonia, ancorato a un’Italia risorgimentale, i cui valori gli aveva trasferito il padre, preside scolastico. Un soggetto riflessivo che, quando prendeva la penna in mano per scrivere una relazione non mancava di argomentare con citazioni classiche e riferimenti letterari i concetti fondamentali del documento. I più begli atti ministeriali che abbia letto in vita mia (già, ci possono essere atti ministeriali esemplari e belli) sono stati scritti proprio da lui, Goffredo.
Era distratto. E nel ministero vicino al nostro, lavorava un suo amico, Fofò.
Quasi tutti i giorni, Fofò telefonava. Parlottavano qualche minuto, poi Goffredo si alzava e scendeva a prendere il caffè al bar del nostro Cral che ci sembrava il migliore di Roma. Così, un giorno, con un altro collega, Alfredo, un romano caustico e brillante, decidemmo di fargli uno scherzo. Una decina di minuti prima della solita ora, Alfredo lo chiamò al telefono dicendo le solite due parole (che sia lui che io avevamo colto rispondendo al suo apparecchio): «Sono Fofò.»
L’altro, distratto ontologico, rispose: «Scendo.»
Si alzò e si diresse all’ascensore.
Qualche minuto dopo, il telefono di Goffredo suonò di nuovo. Era Fofò.
Gli risposi io: «Goffredo è dovuto scendere in Economato, mi ha incaricato di dirti che ti aspetta al Fagiano.» Il Fagiano era il bar più elegante della Piazza di Porta Pia.
La trappola era in campo.
Infatti, Goffredo rientrò in stanza, scuro in volto.
Io: «Ha chiamato Fofò: ti aspetta al bar Nomentano.»
Sbuffando, il malcapitato fece marcia indietro dirigendosi all’ascensore.
Non erano passati cinque minuti, che Fofò si fece vivo. E io, in presenza di Alfredo che era il testimone divertito dell’operazione: «Non l’hai trovato? Di sicuro è sempre lì che ti aspetta al bar qui sotto, quello del Cral.»
«Ma come, mi avevi detto il Fagiano!»
«Hai capito male. Ti ho detto che andava all’Economato che è vicino al Cral. Non potevo pensare al Fagiano.»
Il tizio borbottò e chiuse.
Il caso volle che i due si incontrassero nei loro trasferimenti da un bar all’altro, si parlassero e si rendessero conto della burla.
Goffredo non mi parlò per mezz’ora, poi sorrise e scoppiò in una risata.
Finì in gloria. In via Messina, lì vicino, c’era una trattoria siciliana, economica, molto economica. Si chiamava la Tavola d’oro.
Dopo un paio di giorni, davanti ad arancine e insalata di olive e una bottiglia di Corvo, l’unico vino siciliano in vendita in Continente, festeggiammo l’amicizia, lo scherzo e il piccolo sconcerto provocato.
Una storiella alla Giufà, che mostra due cose: il modo ingenuo, forse primitivo nel quale ci divertivamo tra i 25 e i 30 anni. La libertà di cui disponevamo noi funzionari: niente repressioni, genere registrazioni ingressi e uscite. L’unico modo nel quale i “superiori” ci controllavano era il lavoro e la sua qualità.
Nell’Amministrazione pubblica di questi tempi, mi sembra che si guardi di più agli orari e meno a come si utilizzano.