di Massimo Jevolella
Un tempo si diceva: “essere felice come una Pasqua”. Ma oggi, e intendo dire proprio oggi, 12 aprile 2020, chi mai avrebbe il coraggio, o il candore, di sentirsi o dichiararsi felice? La Pasqua è gioia, si sa. La Pasqua ha i colori della primavera, della vita che si rinnova, della speranza. Oggi, invece, grava sul mondo l'ombra cupa di un'angoscia universale. Quell'implacabile conta quotidiana dei morti. La disoccupazione, la miseria che incombe, le fosche previsioni per l'economia. Durante il giorno, alla luce del sole, cerchiamo di allontanare le inquietudini. Tentiamo perfino di ritrovare l'umorismo e il sorriso. Ma chi di noi, in queste notti, non si è perduto almeno una volta nella casa delle streghe di qualche orribile sogno? Quando il freno razionale si allenta, emergono le paure più profonde. Quelle antiche, infantili, ancestrali. Paura dell'abbandono, della solitudine, della morte. Visioni di persone amate che se ne vanno, lasciandoci nello sgomento e nella disperazione.
Eppure dev'esserci un modo, per ritrovare il senso e la chiave della serenità. Un modo autentico. Non belle parole di consolazione, non un palliativo, ma una vera medicina, un balsamo efficace per l'anima ferita e per la mente disorientata. Credenti o non credenti, abbiamo tutti bisogno di questo aiuto, di questo filo d'Arianna che ci conduca fuori dal labirinto buio in cui siamo intrappolati. Chi ha fede, potrà dargli il nome della Pasqua, e il volto del Risorto. Chi fede non ha, gli darà un altro nome e un altro volto. Ma il problema è comunque lo stesso per tutti: dove possiamo cercarlo? E da dove ci può provenire?
Io non ho magisteri di sapienza o di morale. Posso solo parlare della mia povera esperienza personale. Di quello che credo d'avere appreso in una vita ormai lunga. Ricordo che mio padre, quando io e mio fratello eravamo bambini, amava ripeterci spesso un ammonimento: “Siate sempre presenti a voi stessi”. Quella frase echeggiava nella mia mente, ed io cercavo di penetrarne il senso. Mi colpiva, soprattutto, quella parola: “presenti”. Sentivo oscuramente che nel concetto di “presenza” si celava una misteriosa verità. Certo, mio padre intendeva semplicemente invitarci a non agire mai da incoscienti. Voleva metterci al riparo dalle disgrazie. Eppure in quella “presenza” veniva elaborandosi in me, col passare del tempo, l'idea del rapporto con quella che verso l'età di trent'anni cominciai a chiamare col nome di “guida interiore”. Ed ecco, mi apparve chiaro allora che proprio da quella guida, da quella presenza, doveva dipendere il destino della mia vita. Solo ascoltando la sua voce, solo seguendo i suoi passi, potevo evitare gli errori fatali, e trovare la mia strada alla ricerca di una possibile felicità.
E imparai, col tempo, che quella è una voce angelica che non grida e non ferisce, ma è come un sussurro delicato, un fruscio musicale che ama risuonare nel sogno e nel silenzio, come il vento di primavera tra le foglie dei pioppi. Scoprii che filosofi e mistici l'avevano sempre evocata con insistenza. Meister Eckhart scriveva che: “Esiste nell'anima una potenza che non attiene né al tempo né alla carne. Essa sgorga dallo spirito e nello spirito dimora. È una tal gioia del cuore, una gioia così indicibilmente grande che nessuno è capace di esprimerla compiutamente”. Plotino si appellava proprio a lei, a quella misteriosa presenza (parousìa, in greco), per sciogliere il nodo del nostro rapporto con la fonte suprema dell'essere. Egli pensava che né i sensi, né l'intelletto, né la scienza possono darci la chiave del paradiso. Solo avvertendo quella presenza, lui diceva, noi entriamo in contatto con l'Uno. Avicenna e i mistici musulmani la individuavano nel “visitatore notturno”, nell'imàm nascosto che ci guida verso l'Oriente delle luci. I qabbalisti ebrei la chiamavano Shekhinà, e sognavano di riportarla nel mondo dal drammatico esilio in cui era stata confinata dalle oscure potenze dell'ignoranza e del male. La radice di quel nome è legata all'idea del “dimorare” e del “riposare”, ed è la stessa dell'arabo sakîna, che vuol dire serenità, quiete, presenza interiore di Dio, calma che viene da Dio. Ma la cosa stupenda è che in arabo la “padronanza di sé”, “l'essere presenti a se stessi”, si esprime nella frase malaka sakînata nafsihi, che alla lettera vuol dire “possedere la sakîna – ossia la serena presenza – di se stessi”. Ed ecco così che l'insegnamento dei mistici si saldava in modo stupefacente con l'antico ammonimento di mio padre!
Voi ora direte: ma che c'entra tutto questo con la felicità pasquale? Ebbene, io credo che quel prezioso filo d'Arianna, che può guidarci fuori dal labirinto dell'angoscia, non si possa trovare in altro luogo che nella “camera segreta del cuore” dove risuona dolcemente la voce di quella presenza divina. Ma se il termine “divina” non ci va a genio, perché non siamo credenti, chiamiamola pure con un altro nome. Non avrà meno valore. Perché forse è solo la voce di un padre, o di una madre, che ci esorta, come quando eravamo piccoli, a non perdere mai la padronanza di noi stessi, ad affrontare i dolori e i pericoli con calma e coraggio, a non commettere mai l'errore di smarrire la speranza.
Buona e Felice Pasqua a tutti!