di Giacomo Laudicina
A Zi Annita aveva un aspetto di molto invecchiato, rispetto alla sua età, per le vicissitudini e le tribolazioni che la vita le aveva riservato.
Bassa di statura, vestiva sempre di scuro e indossava sempre un fazzoletto variopinto annodato sotto il mento che lasciava intravedere i capelli ormai tutti bianchi ordinatamente raccolti in un tuppo. A scuola si metteva addosso sempre un falare blu abbottonato sul davanti. Nonostante l’età ormai avanzata e indefinita, era agile, dallo sguardo vispo e attento.
Teneva l’edificio scolastico lindo e pulito e richiamava chiunque sporcasse o lasciasse qualche suppellettile in disordine.
Il regno della Zi Annita era la stanza dove erano situati i gabinetti.
Questi erano situati in fondo al corridoio in un’ampia stanza dove in una parete erano stati ricavati tre bagni, le cui pareti non arrivavano al tetto e le cui porte non arrivavano al pavimento, lasciando uno spazio di circa venti centimetri. I bagni erano alla turca. Nella parete di fronte ai bagni c’erano due sgabuzzini con le stesse caratteristiche. In uno erano allocati gli attrezzi delle pulizie della Zi Annita. Nell’altro, più ampio, venivano accatastati banchi e altri suppellettili scolastici rotti.
Io ed il mio compagno Peppe avevamo rubato la chiave dello sgabuzzino dove c’erano i banchi. Per dire la verità, non che l’avessimo rubata, l’avevamo vista alla porta, chiuso la stessa con l’intento di consegnare la chiave alla Zi Annita. Poi abbiamo pensato di non dargliela.
“Si firriau e misi suttasupra tutta a scola e nun s’arricurdau mai dunnè ch’avia misu sta caspita di chiavi”.
Le chiavi dei due sgabuzzini erano simili, però ognuna apriva solo la rispettiva porta. A Zi Annita “nascondeva” le chiavi in un interstizio del tavolino posto nel corridoio accanto alla porta di accesso ai bagni. Nascondino che io e il mio compagno Peppe conoscevamo. All’indomani della scomparsa all’insaputa della Zi Annita cominciammo a sostituire le chiavi. Stavia scennu foddre; in pratica non si capacitava perché, a volte, la “stessa chiave” apriva or l’una or l’altra porta, addirittura la vedevamo che ribaltava il tavolino per trovare la chiave persa. Dopo intuì della presa in giro e non mise più la chiave sotto il tavolino. Stava molto guardinga e cercava di capire e scoprire chi aveva sostituito le chiavi.
Infatti poco dopo chiamò in disparte me e Peppe, con l’intento di indagare.
Ci guardava in modo torvo.
C’è quaicchi curnutazzu chi s’arrubbau a chiavi, viatri ni sapiti nenti?
A chiave! Quale chiave?
All’unisono io e Peppe.
Quali chavi? A chiavi ru sgabbuzzinu!
A chiavi ru sgabbuzzinu! E quali sgabuzzinu?
U sgabuzzinu du bagnu unni ci sunnu i banchi rutti.
Boh!! E picchi addumanna a niautri?
Tu m’addiri una cosa.
Rivolgendosi a Peppe.
Chi murritiavi stamatina vicinu u tavulinu?
U tavulinu! Quali tavulinu?
Sintiti ca! Sta storia ava finiri! Sta chiavi ava‘nnesciri fora picchi di tutti i picciotti chi sunnu na sta scola, sulu viatri rue putuavu cumminare una cosa ri chissa. Quindi i cosi su due. Uno, o mi cunsignati a chiavi; rue, o mi cunsignati a chiavi!
Zi Annita mia, ma niautri ri sta storia unni sapenu nenti!
Rispose Peppe ca faccia ri unu cu’mpaga a nuddru.
A mia umm’interessa, o vuliri o vulari, u fattu è chi sta chiavi avi a nesciri fora, picchi sennò vi fazzo a biriri eo. Picca picca ciù rico e maestre!
U capisti Zuccu Tortu?
Rivolgendosi stavolta a me.
All’indomani a Zia Annita trovò la chiave appesa alla porta.
Per qualche tempo ci guardò in cagnesco. Noi, di contro, ci mostrammo il più possibile indifferenti.
Essendo della contrada ci conosceva tutti, non ci chiamava per nome ma con il soprannome della famiglia di appartenenza, a ‘ngiuria. Quelli che non avevano una ‘ngiuria di discendenza a zi Annita provvedeva ad appiopparne una individuale, sin dalla prima elementare, in base a determinate e varie caratteristiche o attitudini e con quella poi ci chiamava. Era una fabbrica di ‘ngiurie, ne sfornava a catena di montaggio, suscitando l’ilarità anche dei soggetti a cui l’appioppava. In senso affettivo quasi sempre faceva seguire a ‘ngiuria con l’aggettivo meo o mea.
Frequentavano la scuola due cugini con lo stesso nome e cognome e con la stessa ‘ngiuria familiare ma di corporatura completamente diversa, uno esile e smilzo, l’altro paffuto e tarchiato, per cui a Zi Annita per differenziare l’omonimia nel nome, nel cognome e nella ‘ngiuria familiare, li chiamò uno Masicchio e l’altro Masone.
Ad un fratello ed una sorella, considerato che a ‘ngiuria di famiglia era Ciacculuni, appioppò al maschio u ciacculuneddru e alla femmina a ciacculuneddra.
Una delle più appropriate ‘ngiurie che io ricordi fu data a un ragazzo che per molti anni aveva frequentato, causa ripetute bocciature, la scuola: setteciriveddri. Ancora adesso nella contrada viene così chiamato ed è conosciuto come Settecervelli.
A Zi Annita, prima dell’arrivo delle maestre impediva l’accesso alle aule. Si posizionava davanti al portone dall’alto del suo metro e cinquanta, cu marruggio ra scupa ne manu ed ogni mattina alla sistematica richiesta di qualcuno di noi maschi di andare in bagno, con la sua voce acuta dava sempre la solita risposta; prima a ‘ngiuria di chi aveva chiesto di andare in bagno, poi l’aggettivo possessivo meo ed infine la frase “ … si hai u ‘ncasciu lentu, va falla darrè u muru”, suscitando le risate di noi tutti. Con le bambine era accondiscendente.
Dietro quella piccola figura femminile della Zi Annita si nascondeva un grande dolore personale che derivava dalla malattia di suo figlio Pino.
L’aveva concepito quando lei era avanti negli anni.
Pino, di qualche anno più grande di me, era affetto da una malattia progressivamente invalidante.
Aveva evidenti difficoltà a deambulare.
Pino, aveva finito la scuola media con ottimi risultati, ma per via di questa sua condizione non aveva proseguito gli studi.
Era di un’intelligenza fuori dal comune, passava la mattina a leggere qualsiasi cosa, libri, giornali e ad ascoltare la radio. Era informato su tutto. Aveva la passione del calcio, sapeva tutte le formazioni delle squadre di serie A.
Ogni pomeriggio, sistematicamente subito dopo pranzo, si presentava in piazza con il suo incedere claudicante e andava a sedersi sul davanzale del salone du Zi Cicciu, u varvere, aspettando che la piazza si animasse di gente ed anche che io gli portassi il Giornale di Sicilia che mio padre comprava ogni giorno. Gli si illuminavano gli occhi quando gli passavo i fumetti di “Capitan Miki” e di “Blek Macigno”.
Nel salone vi era un piccolo tavolino di legno con una scacchiera dipinta.
Nei pomeriggi d’estate prendeva il tavolino con due sedie, lo sistemava fuori sul davanzale del salone e posizionava le pedine sulla scacchiera. Tutti noi ragazzini abbiamo imparato a giocare a dama da lui.
La malattia col tempo lo costrinse sulla sedia a rotelle. Ogni giorno, tempo permettendo, c’era sempre qualcuno di noi ragazzi che, a turno, lo andava a prendere a casa e lo portava in piazza e poi qualcuno che lo riaccompagnava a casa. Con l’aggravarsi della malattia fu costretto a rimanere a casa. Non andai più a trovarlo, mi faceva star male vederlo in quello stato.
Vidi l’ultima volta la Zi Annita nell’anticamera dello studio del medico di famiglia, dove mi ero recato per prescrivere delle medicine per mia madre.
Quando entrai non l’avevo riconosciuta, salutai i presenti ed accennai un sorriso e un gesto con la mano ad una signora che conoscevo, mia vicina di casa, seduta accanto a lei. Vidi che iniziarono a confabulare e notai il suo sguardo su di me. “Zuccu tortu meo!”, la riconobbi dalla voce all’istante. “Chi fai,… Mancu mi saluti chiù ora ch’arriniscisti e addivintasti pezzu rossu” mi disse ad alta voce alla presenza di una decina di persone che erano lì in attesa di essere ricevuti dal medico, facendomi arrossire. “ … sulu to patri, bonaimma, ti potti addrizzare”, e ancora di più arrossire. “Chi facisti .... i ricciuli ti iucasti tutti?” accennando alla mia precoce ed accentuata calvizie. “Veni ca’ fatti rari un vasuneddru”. Fece alzare la nipote che l’accompagnava e mi fece sedere accanto a lei, volle sapere se ero zito o maritato, chi travvagghio facìa, dunn’è ch’abbitavo, ecc. Si ricordava di tutte le birbanterie che avevo combinato a scuola. “Ti ricordi quantu ni cumminasti qunn’eri nicu, …. qunt’eri birbanti e tintu! ….i busi-busi, … l’ova, … a scazzuttata cu Truncuneddru… e …” e smise per un attimo di parlare, mi fissò socchiudendo gli occhi e accennando ad un sorriso, mise la sua mano sul mio braccio, si avvicinò come se mi volesse dire qualcosa a bassa voce, di intimo, di segreto. “e tu però a mia,… a mia, ‘ncalata, ora m’a ddiri una cosa.”
M’a ddiri cu è chi ammucciau a chiavi du sgabbuzzinu du bagnu?
Non potei non dirle la verità.
Ero chiù chi sicura chi fusti tu e dru ran pezzu ri birbanti di to cumpari U Ciararu (a ‘ngiuria di Peppe). Mi dette un altro bacio sulla guancia.
Mi salì il groppo in gola quando mi parlo di Pino: “Pinu meu addumannava sempri ri tia…, u’nvinisti chiù a truvallu?”.
Mi giustificai mentendo. Rimpiango ancora adesso il fatto che non sono più andato a trovare Pino.
Mi salutò con un “Giacomino meo, ….. ti vogghiu bene!”. Fu l’unica volta che mi chiamò per nome.
Un giorno, dopo tanto tempo, al cimitero mentre andavo a trovare i miei defunti, mi andarono gli occhi su due lapidi vicine, con incisi due nomi che mi erano familiari. Erano i loculi dove riposavano mamma e figlio. Nelle ricorrenze dei defunti ogni anno vado sempre a portare un fiore.