di Anna Fici
È proprio vero! Non ce la facciamo più! Più è plausibile che dal 4 o dal 18 maggio si possa, sia pur con tutte le cautele del caso, lasciare casa, più difficile diventa sopportare questi ultimi giorni. Ma l’attesa non è soltanto dura. È anche piena di dubbi su quale potrà essere il livello di libertà di cui potremo godere in futuro. Si perché questa crisi, già gravissima di per sé, è indubbiamente venuta a cadere su una precedente e grave crisi di legittimità che il sistema politico non solo italiano sta attraversando da tempo. Il sociologo novantenne Edgar Morin, in una intervista reperibile su L’Avvenire del 15 aprile scorso ha definito l’attuale situazione un «policrisi». Da tempo è venuta meno la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema politico e di ogni altro tipo di potere. Ma poiché nel caso dell’Europa e degli Stati Uniti i regimi, per la maggior parte, sono democratici, mi sembra di poterne concludere che da tempo è venuta meno la capacità dei cittadini di credere in se stessi, di fidarsi delle proprie valutazioni. E una ragione c’è.
Siamo bombardati da informazioni dalle fonti spesso poco trasparenti. E sulle quali non è da tutti riuscire a fare chiarezza. La difficoltà soprattutto italiana di avere a che fare con il web non è di tipo tecnico. Mancano criteri di orientamento e selezione. Manca una alfabetizzazione non soltanto tecnologica ma nel campo delle strategie cognitive per avere a che fare con la complessità.
La elevata specializzazione di alcune informazioni, come per esempio quelle mediche, impongono al cittadino di fidarsi. E tutti noi lo faremmo volentieri se non fosse per il fenomeno a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni:
«Lo zucchero fa bene al cervello», «Lo zucchero è veleno, specie se raffinato». «Le uova non vanno consumate se si ha il colesterolo alto», «Le uova possono essere consumate anche ogni giorno, non influiscono sul colesterolo». «La distanza di sicurezza dal nostro prossimo in questa pandemia deve essere di almeno un metro», «Le goccioline possono viaggiare fino a quattro metri, trasportando il virus». «Se si sta all’aperto, magari al sole, e si evitano assembramenti, la mascherina è superflua», «La mascherina è consigliata sempre, necessaria in ambienti chiusi», «La mascherina è obbligatoria per uscire di casa». «Il 5G fa male e influisce sulla persistenza del virus», «No. È l’inquinamento urbano a rendere il virus più longevo». «Il virus è naturale», «Il virus è fuoriuscito da laboratori cinesi». Ci si è messo persino il Premio Nobel Luc Montagnier a creare confusione su questo argomento. E non è la prima volta che lo fa. Non riusciamo nemmeno a sapere se il leader della Corea del Nord Kim Jong-un è veramente morto.
A cosa serve una democrazia se il cittadino sa talmente tanto da non sapere nulla con certezza? Non ci avevano insegnato che l’informazione è alla base della decisione? Per esempio di voto? Alla base della possibilità di avere un qualche controllo sul nostro destino?
Viviamo in un regime di precarietà. La precarietà non è soltanto lavorativa. A questa, già fortemente condizionante, si aggiunge la precarietà del valore di informazioni e conoscenze. Come potrebbe, in questa situazione, non sorgere nel cittadino il sospetto che l’impossibilità di controllare l’informazione sia uno strumento per controllare lui? Uno strumento per renderci tutti diversamente sudditi? Sudditi 3.0? È abbastanza logico arrivare a pensarlo anche se non si sa con chi o con che cosa prendersela: le multinazionali, la finanza, la globalizzazione, i politici in generale, i poteri occulti…, il Governo… Le responsabilità, se ci sono, sono annacquate. E ci sentiamo impotenti. Viviamo in uno stato di confusione che produce in noi reazioni scomposte.
In questi giorni sui social se ne sono sentite di ogni. C’era chi disquisiva sulle libertà costituzionali, facendo il portiere o l’impiegato delle Poste. Ovvio che portieri e impiegati delle Poste possono aver letto la Costituzione. Anzi, sarebbe auspicabile, magari con un ritorno dell’educazione civica nelle scuole, recentemente recuperata dal MIUR che finalmente ne ha rivalutato l’importanza. Pare che verrà reinserita dal settembre 2020.
Sempre sui social c’era chi, ad esempio, scriveva della illegittimità delle autocertificazioni. E quando un altro interlocutore gli faceva notare l’eccezionalità della situazione, il primo passava a prendersela con i privilegi e i mega stipendi dei parlamentari. Allora l’altro gli chiedeva che cosa questo ci entrasse. E quell’altro rispondeva: «Si amu a soffriri, amo a soffriri tutti».
Si nota la difficoltà a mantenere un certo livello di coerenza nell’argomentazione che è il segno del livello di confusione e prostrazione a cui il mondo dell’informazione contemporaneo ci ha consegnato. Non siamo ignoranti. Forse anche, in una certa misura. Siamo sospettosi e demotivati. Non crediamo più di poter arrivare ad alcuna verità. Tutto è precario. Tutto è dubitabile. Ma se cediamo a questa condizione, se la interiorizziamo per davvero, finiamo con il cedere al qualunquismo ed avverare la profezia di una democrazia solo formale e non sostanziale. A furia di dirlo e per gli effetti del dirlo potrebbe diventare vero, perché potremmo arrivare a convincerci che ogni nostra azione non conti nulla. Non abbia conseguenze. E dunque non agire o agire irresponsabilmente.
È invece giunto il momento di uscire dalle zone di confort, per chi ne ha ancora una, e rimboccarci le maniche per rimettere in piedi il Paese. È giunto il momento di guardare in faccia la complessità. Significa rimettersi a pensare e a pensare fino in fondo. Ovvero pensare alle implicazioni globali delle nostre anche piccole azioni locali. Ad esempio, significa ricollegare il nostro bicchierino di plastica gettato in strada con le isole di plastica in mare. E provare a farci qualcosa piuttosto che trarne sconforto e dedurne che siamo irrilevanti. Perché se lo pensiamo lo diventeremo sicuramente. Dobbiamo imparare a pensarci come cittadini globali, dalle responsabilità globali. Perché anche questo virus, globalmente diffuso, è attecchito in virtù di condizioni favorevoli a livello globale. E cose del genere potranno riaccadere.
In tal senso, forse la prima tra le tante cose da fare, è quella di fare in modo che l’informazione ci dia una mano, che torni ad essere uno strumento di qualità, capace di assisterci nel tentativo di sviluppare l’intreccio delle nostre azioni. Che torni ad essere uno strumento decisionale, assumendoci la responsabilità di «studiare» un po’ di più tutti quanti: giornalisti e cittadini. E fidandoci dei «saperi esperti» nei vari ambiti; imparando da Socrate l’umiltà.
«So di non sapere» dovrebbe essere la premessa per coltivare il sapere che oggi è richiesto: la capacità di individuare chi davvero sa, dove si trovano le informazioni attendibili. Sorvegliando sulla meritocrazia che è l’unico strumento a nostra disposizione per rinforzare la credibilità delle istituzioni come per esempio scuola, università, enti di ricerca. Oggi stiamo toccando con mano quanto siano importanti. E abbiamo tutti constatato quanto, il disinvestimento, non solo economico ma anche culturale in questi campi, ci sia costato caro.
Per esempio, solo lo studio e l’approfondimento possono consentirci di affrontare l’argomento della contrapposizione che sembra si stia venendo a creare tra libertà democratiche ed emergenza sanitaria. Anche io, non essendo una giurista né tanto meno una costituzionalista, ho dovuto studiare. Resto, in ogni caso, non in grado di entrare nella questione da un punto di vista giuridico. Tenterò quindi di affrontarla sul piano socio-culturale.
Libertà di movimento, privacy, libertà di culto, istruzione, sono tutti diritti che l’attuale situazione sta mettendo in crisi. Lo strumento dell’autocertificazione così come l’app per la tracciabilità dei nostri spostamenti ci fanno paura. Ci fanno paventare un futuro in cui le scelte che fino ad oggi hanno fatto parte delle più elementari libertà private, potranno essere limitate.
Il prof. Giorgio Agamben, filosofo politico di chiara fama, in un articolo apparso su Quodlibet il 13 aprile scorso, si è fatto delle domande. Si è chiesto «come abbiamo potuto accettare, soltanto in nome di un rischio che non era possibile precisare, di un nemico invisibile, che le persone che ci sono care e degli esseri umani in generale non soltanto morissero da soli, ma – cosa che non era mai avvenuta prima nella storia, da Antigone a oggi – che i loro cadaveri fossero bruciati senza un funerale». Si è chiesto come «abbiamo poi accettato senza farci troppi problemi di limitare, in una misura che non era mai avvenuta prima nella storia del Paese, la nostra libertà di movimento». E come «abbiamo conseguentemente accettato di sospendere di fatto i nostri rapporti di amicizia e di amore, perché il nostro prossimo era diventato una possibile fonte di contagio». Ha attribuito tutto questo al fatto che la medicina moderna abbia creato il terreno fertile per la scissione nell’essere umano tra la vita biologica e la vita affettiva e spirituale. E si è chiesto provocatoriamente come la Chiesa abbia potuto avallare tale scissione, rinunciando alla propria mission.
«Sotto un Papa che si chiama Francesco – scrive Agamben – la Chiesa ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede».
Agamben, insomma, legge tutto questo in termini negativi, come il segno di un profondo decadimento etico e politico.
Personalmente trovo invece che in questa tragica situazione il cittadino italiano sia riuscito, con un colpo di reni insperato, a riemergere dal qualunquismo a cui si stava autodestinando, a ritrovare uno slancio solidale, interpretando la solidarietà come oggi va interpretata, ovvero nella chiave di un contenimento dei contatti con il prossimo. Credo che in generale i cittadini abbiano manifestato ragionevolezza. Credo anche che non sia certo stata la medicina moderna ad operare nel genere umano la scissione tra corpo ed anima, bensì il mercato e il mercato globale particolarmente. Un mercato da cui la scienza sa all’occorrenza prendere le distanze cooperando per il bene di tutti e impedendo brevettazioni private di cure e vaccini.
Credo che la privacy che, soprattutto dalla diffusione del web e dei social è diventata una protagonista assoluta dell’attualità, siamo noi stessi i primi a metterla a repentaglio ogni giorno per l’approccio socio-ludico a Facebook, Twitter e Instagram. E che siamo mediamente abbastanza intelligenti per capire che quindi possiamo farlo per la salute nostra e per quella di tutti gli altri. In tal senso i problemi sono pratici, non etici. E concernono la compatibilità dell’app prescelta con i sistemi operativi o il fatto che molti anziani non posseggano o non sappiano usare lo smartphone.
Credo che la visione di una Chiesa il cui aiuto consista nello sfamare i lebbrosi sia una visione medievale, assolutamente inattuale e che le forme di aiuto più in linea con il presente siano altre. L’esempio prima di tutto. Il Papa solo nelle via crucis e nelle celebrazioni pasquali ha dato un esempio altissimo di solidarietà. Ci ha indicato la strada di ciò che oggi serve di più per evitare che la malattia si trasformi in una ecatombe. E’ stato empatico verso le persone sole, prive dell’abbraccio, privandosene a sua volta. Ha celebrato in una composta desolazione che ha scosso le coscienze.
D’altra parte, qui non si tratta della libertà/responsabilità del singolo di agire secondo coscienza e per se stesso. Non si tratta di permettere a chi lo desidera di agire da martire. L’offerta di aiuto al prossimo, priva di adeguate protezioni, può trasformarsi in una strage collettiva e vige sempre quel principio di cui ha parlato Martin Luther King che la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella degli altri. Oggi la pandemia ha intrecciato indissolubilmente le libertà e le responsabilità di ognuno con quelle di tutti gli altri e, volenti o nolenti, è un dato di fatto con il quale siamo chiamati a fare i conti.
In molti hanno polemizzato sul fatto che la nostra Costituzione non preveda lo «Stato di emergenza», bensì soltanto lo «Stato di guerra» e che solo quest’ultimo può giustificare la sospensione di alcune libertà garantite dalla Costituzione come la libertà di movimento ed altre libertà personali. Ma certamente l’Italia non poteva ignorare il fatto il 30 gennaio 2020 l’O.M.S. abbia annunciato «l’emergenza sanitaria globale» causata dal COVID-19. E d’altra parte la stessa Costituzione, all’Art. 77 recita che:
Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti.
Il timore quindi consiste nella possibilità dell’abuso di questo strumento dovuta alla sfiducia generalizzata nei confronti della politica. Il dibattito tra giuristi infatti ha già evidenziato l’eccessivo ricorso allo strumento del decreto legge, in tempi non sospetti e prima dell’avvento della pandemia. Quindi la crisi attuale si configura come una policrisi, come sostiene Morin, proprio perché il problema sanitario è esploso nel pieno di una crisi di legittimità ben più vasta e profonda. In una situazione di scollamento tra cittadini e rappresentanti. I fattori che hanno prodotto tale scollamento sono ovviamente molteplici. Ma ad acuire la distanza sono intervenuti da un lato l’informazione di cattiva qualità, dall’altro una formazione culturale inadeguata al presente. Un presente in cui studiare non consiste più nell’acquisire contenuti, oggi reperibili ovunque; bensì nel sapersi muovere tra le sedi che li ospitano, nel saperle soppesare e porre nella giusta gerarchia di affidabilità. Perché le crisi globali non si affrontano con le cartucce del pensiero debole.