di Marcello Benfante, con le tavole di Gianni Allegra
VIII
AL “COLAPESCE”
Chissà per che rovello
Si lamentano al largo le Sirene... (Guillaume Apollinaire, «Bestiario»)
L’insegna del “Colapesce” rappresentava in stile naïf un fondale marino con al centro una specie tritone barbuto dalla carnagione verdastra e squamosa circondato da avvenenti sirenette.
- Questo Colapesce ricorda il Dagan cananeo, non ti pare? – disse Ferraù varcando la soglia del pittoresco locale.
- È vero. A volte le nostre remote origini fenicie riaffiorano inaspettatamente, come da una specie di subconscio collettivo.
- Anche le sirene hanno un che di orientale. Sembrano delle odalische subacquee alle prese con una danza natatoria del ventre...
- Mi fanno venire in mente la Lighea del Lampedusa...
- Che a sua volta mi fa venire in mente la Lady Ligea di Poe.
- Probabilmente il nostro professor Diogene troverebbe molto significativa questa associazione letteraria.
- In che senso?
- Ovviamente, il senso mi sfugge. Ma a pensarci bene potrebbe esserci un nesso tra il duplice delitto della Rue Morgue e il duplice assassino della via della Clessidra, o qualcosa di simile...
- Ora che mi ci fai pensare la prima avventura di Dupin si apre proprio con una citazione di Thomas Browne che s’interroga sul mistero del canto delle sirene...
- E del nome che assunse Achille quando si nascose nel gineceo...
- Già, credi che dovremmo riflettere su questo accostamento bibliografico?
- Non vedo perché. Il caso, secondo il Professore, è risolto. Seguiamo pedissequamente le sue raccomandazioni.
- Che sono vaghissime. Non spiegano un bel niente. Ho dovuto faticare per convincere l’ispettore Cascavallo ad essere della partita...
- Certo, il nostro “tutor” non si è sprecato in spiegazioni dettagliate. Diogene non ama chi gli fa ombra. Pare che sia geloso delle sue deduzioni e che ami concederle con parsimonia e con un pizzico di spettacolarità.
- Bene, allora seguiamo alla lettera il suo copione. Cosa prescrive l’istruzione numero uno?
- Sedersi a un tavolo e cenare.
- Tutto qui?
- No, specifica che il tavolo deve essere vicino al palcoscenico...
- Per godere appieno lo spettacolo, suppongo. La serata si prospetta di totale godimento e relax... panem et circenses, insomma.
- Speriamo... non vorrei che l’esperimento si dimostrasse più pericoloso del previsto. Non dimentichiamoci che stiamo dando la caccia a un assassino, che non è proprio come risolvere una sciarada...
- In ogni caso possiamo contare su Cascavallo.
- Il che, francamente, non mi rassicura del tutto. Anche perché non lo vedo in giro...
- Verrà, verrà. Col suo comodo, ma verrà...
Il “Colapesce” non era un locale molto vasto. I gestori avevano comunque trovato spazio per collocare una decina di tavolini nella sala ristorante, per cui gli avventori si trovavano praticamente gomito a gomito. Quasi a ridosso del bar si sporgeva una pedana che fungeva da palcoscenico per spettacoli di cabaret e per piccole esibizioni musicali. Un drappo rosso faceva da sipario nascondendo le minuscole quinte. I camerini, anch’essi microscopici, erano collocati subito dopo la toilette. Fra gli uni e l’altra si ergeva la scala che portava alla terrazza.
Per una sorta di mimesis poliziesca, giocammo a fare una sommaria ispezione, peraltro non prevista dalle laconiche istruzioni del nostro mentore: i bagni, piuttosto sordidi, erano sprovvisti di finestre; la scala, ripida e stretta, era percorribile in una manciata di secondi; ai camerini era impossibile accedere senza essere notati dagli artisti. Il nostro maldestro tentativo di intrufolarci, ignorando il divieto ai non addetti espresso in un cartello, fu infatti accolto da urla e improperi, per cui dovemmo battere in ritirata scusandoci per l’importuna invasione. Lo spazio retrostante il palcoscenico era una specie di budello morto in cui non vi era modo di nascondersi.
Tutto l’ambiente, per la sua angustia e la sua elementare disposizione, si prestava poco a intrusioni o ad occultamenti. Eppure, quel luogo anonimo era stato l’anticamera di un delitto eseguito con rapidità e precisione.
Rassegnati a dover attendere gli eventi seguendo la scaletta imposta dal Professore, raggiungemmo sconfortati il nostro tavolo dove ci consolammo studiando il menu, che offriva con allettante accostamento e talora miscuglio specialità siciliane e magrebine.
Optammo per un pesce persico Chermoula, un Tajne di pesce, un Mechoui d’agnello arrosto, una Pastilla farcita di piccione e mandorle.
Non inappuntabile, il servizio si dimostrò almeno celere. In breve tempo, un cameriere dall’aspetto losco, con un occhio strabico e una sghemba cicatrice su una guancia, riempì l’esiguo spazio del tavolino con una straboccante quantità di esotiche leccornie.
- Che te ne pare di del cameriere? Un tipo sospetto, no? – mi sussurrò Ferraù.
- Dici? Perché?
- Così, a occhio... ha una brutta faccia, sbilenca come la colpa...
- Complimenti per i tuoi avanguardistici metodi lombrosiani! Un minimo di serietà, per favore...
- No, un minimo d’ironia, piuttosto. Si capisce che stavo solo scherzando. Tu prendi tutto alla lettera... d’altronde il senso dell’umorismo è merce rarissima di cui raramente ti provvedi.
- Da che pulpito viene la predica... tu sei completamente privo di senso dell’umorismo.
- Del tuo senso dell’umorismo, dei tuoi limerick così sottili da essere evanescenti. In compenso ho il mio. Che mi fa capire, tra l’altro, che questa specie di indagine nella tana del lupo, anzi nella fabula del lupo, in cui ci siamo impelagati è una situazione assolutamente ridicola.
Il piccolo battibecco, peraltro ricorrente nei nostri vivaci e un po’ teatrali rapporti, non sembrava tuttavia averci tolto l’appetito.
Avevamo appena cominciato a degustare i prelibati e variopinti piatti, allorché sopraggiunse l’ispettore Cascavallo, che senza troppi complimenti prese posto tra noi, piluccando un po’ di tutto con goduriosi mugolii di apprezzamento.
- Si mangia davvero bene in questo posto. Se mi concedete la battuta, sarebbe un vero delitto non approfittare di queste squisitezze...
A proposito di senso dell’umorismo, Franco Cascavallo, per gli amici Ciccio, uomo peraltro serissimo, sia in ambito professionale che nei rapporti privati, non sapeva rinunciare alle sue freddure. E per imitarlo dirò che era restio a rinunciare anche alle fritture. Infatti non riusciva fare a meno alla sua razione quotidiana di pane e panelle, nonostante i reiterati moniti della moglie e del medico curante.
Boutade a parte, era un poliziotto esperto e pacato, dall’occhio lungo (dietro gli immancabili occhiali da sole) e dalla memoria infallibile. In azione, non proprio un fulmine di guerra, ma nemmeno un incapace, nonostante l’età non più verde e la mole corpulenta.
- Allora, Maltese, cosa prevede adesso il canovaccio del vostro Professore? Tra parentesi, io a queste buffonate credo poco o niente.
- Rilassati, Cascavallo, siamo qui per goderci lo spettacolo. Anch’io, comunque, non mi faccio troppe illusioni... è il mio amico che, come tutti gli artisti, ama tutto ciò che è eccentrico e inverosimile.
Proprio in quel momento si aprì il sipario e venne fuori una specie di comico che si esibì in un repertorio piuttosto stantio di satira politica accolto alla fine da blandissimi applausi, che fondamentalmente esprimevano sollievo per la fine dello sketch. Quindi fu la volta di una cantante che, armata di chitarra, interpretò in modo ruggente, anzi ragliante, alcuni cavalli di battaglia dell’indimenticabile Rosa Balistreri e qualche vecchia ballata popolare. Un po’ più avvincente fu il numero di un prestigiatore, il mago Parodius, dotato di una tutto sommato accettabile perizia, ma soprattutto affiancato da una maliosa e discinta assistente, le cui grazie, generosamente esibite, avevano lo scopo specifico di distogliere l’attenzione del pubblico.
L’apparizione della collaboratrice era scaturita (alla lettera) in seguito a un vero e proprio colpo ad effetto. Dapprima il mago si era presentato da solo spingendo sulle sue rotelle una specie di armadio giallo a forma di libro, la cui anta d’apertura recava un cerchio rosso con raffigurata una scena dell’antico Egitto, con tanto di piramidi, in uno stile che vagamente imitava le pitture parietali geroglifiche.
Da questo cerchio, che evidentemente era costituito da una carta velina, era quindi venuta fuori, con un agile ed elegante salto acrobatico, un’atletica venere che indossava un bikini verde di foggia desueta, simile più o meno a quelli che si possono ammirare nei mosaici della Villa del Casale a Piazza Armerina, che ne metteva in risalto le perfette e scultoree forme.
Truccata e acconciata come una specie di Cleopatra del cabaret, l’avvenente collaboratrice veniva presentata dal mago Parodius col nome piuttosto incongruo alla messa in scena di Miss Agatha e accolta dal pubblico (del tutto indifferente all’incongruenza) con un entusiastico applauso.
Nel suo promemoria il Professore aveva raccomandato di fare attenzione al numero dell’illusionista, che probabilmente ci avrebbe suggerito qualcosa. Il repertorio era però alquanto scontato: giochi di prestidigitazione con le carte, conigli che saltano fuori dai cilindri, foulard infiniti che escono dalla bocca, bastoni che diventano mazzi di fiori. Lo spettacolino diventava ben più interessante quando coinvolgeva la bella collaboratrice, la quale, tra le proteste generali, ora scompariva dentro un armadio a doppio fondo e ora veniva segata a metà in un sarcofago antropoide fanta-egiziano (che un po’ mi ricordava quelli visti al museo e sollecitava certe mie fantasie punitive sado-erotiche sul conto di Dora).
Quest’ultimo siparietto risultò particolarmente efficace, o almeno tale sembrò a me a Ferraù, perché le due estremità della bella assistente, separate in modo netto, lasciavano ovviamente supporre l’esistenza di un’altra assistente nascosta agli occhi degli spettatori dentro uno degli elementi separabili del sarcofago.
Tali dimezzamenti e sdoppiamenti, come ci aveva suggerito il Professore, rimandavano in qualche modo al mistero dei via della Clessidra, ma né io né Ferraù riuscivamo a venire a capo di quella sciarada.
Ma il clou della serata, secondo le indicazioni del Professore, doveva essere un balletto ispanico intitolato “Bolero double-face”.
Da una porta laterale, fecero il loro ingresso in palcoscenico sei ballerini, che si disposero di fianco in fila indiana mentre partivano le note cadenzate di un’oscena rivisitazione in chiave pop dell’arcinoto “Bolero” di Maurice Ravel.
Squadravamo i ballerini con inquieta attenzione, allorché essi, con una rapida rotazione, mostrarono l’altro fianco. Davanti a noi apparvero così sei ballerine!
Creature ambivalenti, metà uomini e metà donne, i danzatori mostravano alternativamente ora uno e ora l’altro profilo, in un vorticoso gioco di sdoppiamenti.
- Ecco spiegato il segreto di Pulcinella. Non era poi un mistero così impenetrabile! – esclamò Ferraù con un certo disappunto.
- Soprattutto se a Pulcinella qualcuno aveva già tolto la maschera – gli risposi, per ristabilire un’equanime valutazione dei meriti.
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Per leggere le puntate precedenti:
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Una burla /1
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Uno strano caso /2
Il duplice assassino di Via della Clessidra. In cerca dell'uomo /3
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Disarmonie prestabilite /4
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Ercole al bivio /5
L'assassino di Via della Clessidra. Istruzioni per l'uso /6