di Anna Fici
A Capodanno accoglievamo il nuovo anno del tutto ignari del fatto che di lì a poco avremmo dovuto affrontare l’immane tragedia di una pandemia globale. Brindavamo ignari come sul ponte del Titanic, mentre andavamo incontro ad un trauma senza precedenti; un trauma multilivello, che ha investito la vita biologica, l’economia, la cultura, la democrazia.
Ora tutto è cambiato e forse per sempre. Sicuramente irreversibili sono le perdite umane. Molte famiglie ne escono monche.
Il personale medico e sanitario, più di tutti, ha vissuto un’esperienza scioccante. E molte parole si sono spese per ringraziarlo, per sottolinearne il coraggio, la resistenza, l’umanità.
C’è però un aspetto su cui l’opinione pubblica non si è soffermata a sufficienza: l’esperienza drammatica di assistere alla morte di tante persone senza poterla evitare, senza poter tenere loro la mano, e tutte le altre cose che medici, infermieri, inservienti hanno dovuto affrontare, come la gestione delle insufficienti risorse per offrire l’aiuto atteso, ha costituito un vissuto comune tra di loro. Ma ciascuno l’ha affrontato a partire dalla propria particolare storia, che ha fatto risuonare differentemente quell’esperienza. Anche tra i membri del personale medico e sanitario che ha gestito tutto questo ci saranno state persone dalle biografie pesanti, complesse, o al contrario persone che hanno incontrato il Coronavirus in un momento felice della propria esistenza. E in generale tutti noi, variamente sconvolti dai cambiamenti imposti alle nostre vite dal Covid19, siamo stati colpiti anche nella psiche. E non è finita. La cosiddetta fase 3, quella delle riaperture, si apre all’insegna di molti lutti, relativi, oltre che alle perdite umane, alla perdita di attività commerciali, imprese, professionalità che non ce la fanno a ripartire o ripartono nella più totale incertezza. Quartieri stravolti da questa nuova realtà, punti di riferimento saltati. Ciò che sta accadendo colpisce persone con abbondanti anticorpi psichici e persone già stremate da una vita personale difficile.
È per questo motivo che in occasioni come terremoti e altri disastri si è diffusamente riconosciuta l’importanza di un sostegno anche psicologico a chi affronta esperienze traumatiche.
La definizione di «trauma», dal punto di vista psicologico, vede quest’ultimo come un evento improvviso e inatteso, talvolta violento, che mette a repentaglio l’equilibrio interno di una persona facendo vacillare i suoi punti di riferimento e le sue certezze, sconvolgendo, appunto, la sua vita quotidiana. Vi sono Traumi con la T maiuscola, ovvero quelli a rischio di vita, o traumi con la t minuscola in cui non vi è un diretto rischio di vita ma si ha comunque uno sconvolgimento totale delle condizioni esterne al soggetto che si trasferisce alla condizione interiore. E quale trauma maggiore del Covid19 per tutti noi? Un trauma collettivo che alcuni hanno vissuto nella versione da T maiuscola ed altri minuscola ma che ha riguardato tutti, per la prima volta a livello globale.
I traumi, quando non correttamente elaborati, sono assimilabili a delle vere e proprie cicatrici della mente. Il processo di cicatrizzazione delle esperienze scioccanti può avvenire naturalmente, con il tempo, e portare a cicatrici quasi invisibili o, al contrario, procedere con difficoltà e produrre cicatrici brutte, cheloidee o ipertrofiche, come si dice nel metalinguaggio medico. Per queste ragioni dal 27 aprile scorso è operativo il numero verde di supporto psicologico 800.833.833, attivato dal Ministero della Salute e dalla Protezione Civile per venire incontro ai malesseri psichici prodotti dal Covid19, con il sostegno tecnologico offerto gratuitamente da TIM. Il servizio corrispondente a questo numero verde consiste in un primo contatto con le persone che vi si rivolgono. Ma se le loro necessità, (come per esempio consigli per la gestione dell’ansia, per superare problemi di insonnia…), non si risolvessero in un unico colloquio, queste verranno dirottate verso un aiuto di secondo livello, gestito dal servizio sanitario nazionale, con la collaborazione di diverse associazioni e di diversi professionisti. Del primo intervento fanno parte più di 500 psicologi dell’emergenza afferenti alle Associazioni del Volontariato della Protezione Civile. Al secondo livello di aiuto partecipano oltre 1500 psicoterapeuti volontari appartenenti a diverse società scientifiche iscritte nell’elenco del Ministero (D.M. 2 agosto 2017) e facenti parte della Consulta CNOP (Consiglio nazionale Ordine degli psicologi).
Fra i differenti approcci terapeutici per affrontare il trauma, negli ultimi decenni si è rivelato particolarmente efficace quello denominato EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). Si tratta di un metodo psicoterapeutico strutturato, basato sulla stimolazione bilaterale degli emisferi celebrali, che permette l’elaborazione delle memorie traumatiche. Risale ai primi anni Novanta un primo lavoro pubblicato sul Journal of Traumatic Stress che ne legittimava l’efficacia. L’intuizione di base la si deve alla dottoressa Francine Shapiro del Mental Research Institute di Palo Alto, in California che è recentemente scomparsa. Di questo approccio, riconosciuto nel 2013 dall’OMS (Organizzazione mondiale per la sanità) come metodo elettivo per il trattamento dei traumi, abbiamo parlato con la dottoressa Silvia Giolitto. La dottoressa Giolitto è una terapeuta che opera a Palermo e che utilizza l’approccio EMDR sia in ambito privato sia collaborando con un progetto di ricerca-intervento ideato e guidato dalla dottoressa Tiziana Lo Nigro (responsabile CRSP di Palermo, ovvero del Centro di ricerche e studi di psicotraumatologia), all’interno dell’azienda ospedaliera Villa Sofia-Cervello. Tale progetto ha dato vita al primo pronto soccorso psicotraumatologico creato in Sicilia, in partnership con l’associazione EMDR Italia. Si tratta di una realtà molto recente che è stata avviata nel 2019. Il servizio offerto da questo particolare pronto soccorso è diverso da quello del numero verde istituito il 27 aprile scorso. Lo precede di un anno e si rivolge sia ai pazienti sia al personale medico e sanitario per le ragioni prima sottolineate; ovvero per prevenire o gestire quello che nel settore viene indicato come «trauma vicario», ovvero il trauma di chi assiste all’altrui dolore.
«Si tratta – ci spiega la dottoressa Giolitto in merito all’EMDR – di un metodo evidence based, ovvero di un metodo basato su evidenze empiriche. Quando noi viviamo qualsiasi esperienza, questa viene immagazzinata nella nostra memoria in tutti i suoi aspetti: emotivo, cognitivo, sensoriale… Un evento traumatico non bene elaborato viene ‘congelato’ nella nostra rete neuronale e rimane come una cicatrice nella memoria che può dar luogo a disturbi di varia intensità: dall’ansia, fino a un vero e proprio disturbo post-traumatico da stess che può presentare sintomi come rabbia, confusione emotiva; ma anche somatizzazioni e quindi sintomi fisici. L’EMDR è un approccio psicoterapeutico che può essere messo in atto esclusivamente da terapeuti esperti, e che serve a ricondurre la nostra mente sui binari di un normale, naturale processo di elaborazione dell’informazione. Questo perché, in particolari circostanze, la mente si rivela, appunto, incapace di elaborare le informazioni connesse ad un evento troppo forte. In Italia – prosegue la dottoressa – proprio in concomitanza di questa pandemia, nell’impossibilità di svolgere gli incontri in presenza, è stato attivato a volte un servizio telefonico, rivolto a tutti. In alcuni casi sono stati creati dei piccoli gruppi per il supporto al personale sanitario».
L’associazione EMDR Italia ha già attuato moltissimi interventi in situazioni di calamità naturali come i terremoti, o come ad esempio in occasione dell’alluvione di Genova del 2014; o di incidenti come quello della Costa Crociere del 2012. Ed ha intrapreso diverse collaborazioni con le ASL del nostro territorio il cui elenco è reperibile sul sito dell’associazione al link https://emdr.it/index.php/emdr-negli-enti/aziende-sanitarie-locali/.
«Il ricorso all’approccio terapeutico EMDR in senso stretto – ci chiarisce la dottoressa Giolitto – può rivelarsi utile anche nei casi in cui l’esposizione a esperienze traumatiche sia stata lunga e non legata al singolo evento. Ha il pregio, rispetto alle altre terapie, di produrre abbastanza rapidamente effetti positivi. Quando invece, nell’immaginario collettivo, la terapia psicologica è associata alla lunga durata. Gli effetti positivi consistono nel fatto che il paziente, pur conservando il ricordo dell’evento, talvolta anche recuperandolo a distanza di molti anni, sente una sorta di distanziamento emotivo dallo stesso. Pensieri, emozioni e sensazioni vengono resi consapevoli, in modo che possano essere integrati con le restanti informazioni a disposizione del cervello, in modo che possa esser dato loro un senso. Il ricordo traumatico non scompare ma la carica emotiva associata ad esso diminuisce e anche il significato diviene più accettabile per la persona».
Ringraziando la dottoressa Giolitto per la sua disponibilità e competenza, concludiamo con un auspicio. C’è da augurarsi che il recente trend della medicina che consiste nel pensare all’uomo non solo come ad un corpo su cui si manifestano sintomi ma come un’unità di senso, in cui affetti ed effetti sono profondamente connessi, vada avanti e che la sanità pubblica sia in grado di recepirne l’importanza.