Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
31/05/2020 06:00:00

I can't breathe. Mi manca il respiro

di Massimo Jevolella

Ricordiamo ancora il grido “Oh my God” di una donna che assisteva al crollo delle Torri Gemelle, echeggiato in mondovisione in quella calda mattina di settembre del 2001. Era il grido del terrore, dello sgomento e dell'impotenza di fronte a un evento atroce e incomprensibile. In quel momento comprendemmo tutti che il mondo stava precipitando in una nuova era di violenze e di dolori.

L'altro giorno a Minneapolis – sempre negli Stati Uniti, perché è in quel Paese che fatalmente si addensano e si estremizzano tutte le nostre angosce – un altro grido si è levato, e subito da lì s'è diffuso nel mondo intero, penetrando nel gelo delle nostre coscienze atterrite: “I can't breathe”, “Non posso respirare”. Era un grido soffocato, era il grido flebile e implorante di un innocente che agonizzava, eppure è esploso con il fragore e la forza di un tuono. Era il grido di George Floyd, un giovane uomo dalla pelle scura, ferocemente torturato per nove interminabili minuti, fino a morire, da un altro uomo, dalla pelle bianca, solo e unicamente per la “colpa” di essere un uomo dalla pelle scura.

Questo evento terribile solleva un turbine di riflessioni. Chi non ha pensato, per esempio, che quella frase, “mi manca il respiro”, è la stessa frase pronunciata o anche solo pensata, in decine di lingue diverse, dalle centinaia di migliaia di esseri umani che in questi mesi nel mondo hanno trovato la morte, o sono giunti a sfiorarla, a causa del virus assassino? In più di centomila se ne sono già andati in questo modo soltanto negli Stati Uniti: atrocemente stroncati dalla mancanza di respiro.
Tanto che questa orribile morte, la morte per soffocamento, pare diventata ormai una metafora della nostra condizione esistenziale. Ci manca il respiro. Voglio dire: chi ha vera e profonda coscienza sente, con un dolore acuto, il peso immane e sempre più opprimente delle infinite forme di ingiustizia e di violenza che imperversano sull'umanità, coinvolgendo nel disastro, nel fallimento della nostra civiltà, anche gli altri esseri viventi, animali e vegetali, offesi e travolti da una catastrofe ambientale e climatica che toglie anche a loro lo spazio vitale e il respiro.

Ecco, mi manca il respiro quando penso come un individuo estremamente rozzo, ignorante, stupido e collerico come Donald Trump abbia potuto diventare il comandante in capo della nazione più potente della terra. Trump che non è mai contento delle sue malefatte, e ogni giorno, twittando come un invasato, se ne inventa una nuova. Trump che in queste ore, invece di trovare parole sagge per placare gli animi esacerbati ed esagitati delle folle che manifestano contro il razzismo e contro la brutalità della polizia, altro non fa che gettare benzina sul fuoco con frasi e minacce deliranti e assolutamente indegne di un capo di Stato.

E mi manca il respiro anche osservando la violenza messa in atto da troppi di quei manifestanti. Ma Dio santo, ancora non si è capito che alla violenza non si deve rispondere con altra violenza? Che il cerchio infernale non si arresta mai, se coloro che stanno dalla parte della ragione – gli antirazzisti, in questo caso – non comprendono che l'unico modo per sconfiggere il male è quello di sopprimerlo alla radice, cioè di sradicarlo a cominciare da se stessi? Dominando l'ira, che è un retaggio della nostra natura bestiale, e affermando sempre e comunque i valori della pace e della ragione. Perché “Satana non può scacciare Satana”, come diceva Gesù Cristo. Perché non si può affermare l'amore odiando. Perché la scelta, in fondo, è sempre quella tra essere uomini o pecore matte.

Mi manca il respiro quando penso che la tremenda lezione della pandemia potrebbe non essere servita a niente. Rivedo le genti affacciate ai balconi, in quelle prime settimane segnate dai lutti e dal silenzio delle città deserte, cantare inni di speranza e battere le mani all'eroismo di medici e infermieri. Sembrava, in quei giorni, che gli italiani, e non solo loro, fossero scossi da un brivido di nuova umanità. Ci si azzardava, perciò, a sperare... E invece... Eccoci, ora, ad annaspare in una palude di nuove angosce e di nuove cattiverie. Il primo, desolante segnale del ritorno alla “normalità” arrivò poche settimane fa, quando allo sbarco di Silvia Romano all'aeroporto di Ciampino seguì una delle ondate più vergognose di “odio social” che la nostra storia ricordi. Ed era, appunto, soltanto un segnale. Il seguito è cronaca di questi giorni.

Ma non voglio aggiungere altro a queste osservazioni. Ciascuno può, a modo suo, collegare quel grido, “mi manca il respiro”, a tutte le situazioni che angosciano maggiormente la sua vita e i suoi pensieri. Sarebbe bello, invece, ritrovare almeno un po' di quella speranza che nei giorni ormai lontani della prima reclusione ci aveva rianimati, e ci aveva riscaldato il cuore, fino al punto, in certi momenti, di farci piangere per la commozione. Ci sentivamo allora, come ben disse Papa Francesco, come un popolo di naufraghi, “tutti nella stessa barca”. Nel comune dolore, nella comune paura, per un attimo ci eravamo sentiti tutti, veramente, come fratelli e sorelle. Troppo breve fu quell'attimo. Ma sarebbe bello, almeno, che non ce lo dimenticassimo mai.