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31/05/2020 06:00:00

Mastro Peppino, u scarparo e a truvatura /1

di Giacomo Laudicina

Premessa

I personaggi del racconto sono realmente esistiti ed anche i fatti salienti sono effettivamente accaduti.

Mi sono stati narrati da più persone, in tempi e modalità diverse, che direttamente o indirettamente li hanno vissuti; ma, nel tempo si sa, succede che nel raccontare il narratore di turno è portato ad aggiungere qualcosa e/o ad interpretare gli eventi a modo suo e spesso gli accadimenti vengono così travisati e/o distorti. Si è cercato di effettuare una descrizione il più possibile verosimile ai fatti in base alle varie versioni ascoltate.

I dialoghi, tutti di fantasia, sono stati creati volutamente in dialetto siciliano, quello parlato negli anni Sessanta, epoca di svolgimento dei fatti, nelle borgate dell’entroterra marsalese, per riportare alla memoria alcune parole o espressioni dialettali oggi non più in uso.

La lettura dei dialoghi va fatta con la cadenza del dialetto marsalese, che rispetto al dialetto parlato in quasi tutti gli altri paesi siciliani è molto strascicato e dove la caratteristica principale è che gli articoli vengono privati delle consonanti.

Per capire bene il senso delle frasi in dialetto si consiglia, in prima lettura, di capirne il significato, di cadenzare la pronuncia delle parole e poi di rileggere la frase.

Prima parte

Quando le scarpe si consumavano, non si buttavano via, si portavano dal ciabattino che provvedeva a risuolarle e/o ad aggiustarle.

Nella nostra contrada di ciabattini ve ne erano due: Mastro Peppino e Mastro Giovannino, entrambi i nomi erano seguiti dall’appellativo, u scarparo.

Più o meno della stessa età, entrambi intorno alla cinquantina, forse il secondo di qualche anno più giovane.

Mastro Peppino abitava in una casa presa in affitto a ridosso della piazza e la sua bottega era molto frequentata. Era specializzato nel produrre scarponi da lavoro in cuoio, indistruttibili, e riceveva così tanti ordini che a stento riusciva a soddisfarli tutti.

Lavorava dalla mattina presto a sera inoltrata, anche di domenica, ma era sempre eternamente squattrinato perché oltre a mantenere la moglie, un figlio maschio, non tanto sveglio che, quando gli andava di genio, l’aiutava nel lavoro; doveva provvedere anche alla figlia, non sposata ma con due bambini. Mastro Peppino, oltre al fumo, coltivava un vizietto molto dispendioso che era quello del gioco al Lotto.

Il giocare al lotto per lui era qualcosa di irrefrenabile, non riusciva proprio a farne a meno. Sua moglie per cercare di dissuaderlo gli ripeteva “a litania” che “cu ioca o lottu, campa scarsu e mori picciottu” e Mastro Peppino in risposta, in modo automatico, portava la mano in tasca e andava a stringere un corno rosso che lì teneva o in mancanza “altre cose”. Mastro Peppino era convinto che la causa delle mancate vincite al lotto era attribuibile alla moglie che a suo dire “ci ittava i sintenze” e per scacciare il malocchio procurato, capitava, quando lei dormiva, di aspergerla con acqua santa e di cospargerla di sale. L’acqua la prelevava dall’acquasantiera della chiesetta della contrada e un giorno scoperto dal prete, fu allontanato in malo modo e da allora gli tolse il saluto e si rifiutò di aggiustargli le scarpe.

Capitava anche e spesso, preso dallo sconforto per la fortuna che non gli arrideva, che giurava a se stesso di smettere di giocare.

Il giuramento lo pronunciava solitamente di domenica o al massimo di lunedì, però prima che arrivasse sabato, a quel tempo il giorno dell’unica estrazione settimanale, accadeva sistematicamente che Mastro Peppino, al termine della settimana, si era già scordato del giuramento, perché tanti erano gli stimoli, i fatti, gli accadimenti, le parole, le circostanze e le coincidenze a cui abbinare i numeri della smorfia, che non poteva non ritentare la fortuna.

Per Mastro Peppino non valeva il detto che “u scarparu camina sempe chi scarpi rutti”, perché le scarpe che calzava erano un inverosimile paradosso con tutto l’abbigliamento che indossava.

Quasi un ossimoro!

Infatti indossava scarpe sempre nuove e passate puntualmente a lucido che contrastavano con i calzoni sempre sporchi e lisi, quasi sempre cavusi ri ‘ntocco, con la cintura nera sdrucita penzolante una decina di centimetri, con la camicia di cotone che da nuova era bianca, ma col tempo diventata color isabella o, se d’inverno, di flanella pesante a quadrettoni, in ogni caso consunta, parimenti ad una giacca afflitta di misura. Infine un basco blu dall’orlo unto che nascondeva una parziale calvizie.

La corporatura era esile, il volto emaciato, la barba incolta e i capelli lunghi mirrini che arrivavano quasi alla spalla.

Il sabato, sbarbato e con indumenti meno sgualciti del solito, ma puliti, scendeva in città, ca correra, per effettuare le consegne delle scarpe nuove che i clienti gli avevano ordinato e soprattutto per giocare al lotto.

Nella bottega, una stanza lunga e stretta, l’unica cosa in disordine era il basso tavolino da lavoro, o meglio tutto ciò che si trovava sopra il tavolino, il resto, strano ad immaginarsi, era tenuto tutto perfettamente in ordine: lo scaffale con le scarpe nuove poste in ordine di misura e divisi per tipologia, mocassini e scarponi, lo scaffale con le scarpe da riparare e quello con quelle riparate. Un grosso e ampio armadio dove teneva tutto ciò che serviva alla produzione e alla riparazione delle scarpe ed un attrezzo elettrico utile a modellare quelle nuove. Tutte queste suppellettili insieme a quattro sedie si trovavano davanti al tavolino da lavoro, dietro allo stesso, invece, oltre alla sedia, vi era un piccolo armadio a due ante a vetri con due mensole, dove in quella di sopra vi era riposto un grosso vecchio libro ingiallito dal titolo “A Smorfia napoletana” e un cofanetto di legno che nessuno sapeva bene cosa contenesse, mentre nella mensola di sotto faceva bella mostra di sé una variegata serie di amuleti, corni, tarocchi, ferri di cavallo, quadrifogli, statuette di gobbi, chiavi, stelle a varie punte, borchie. Sopra l’armadietto si scorgeva una grossa candela rossa, due portafoto che contenevano foto ingiallite dal tempo, una statuetta di Budda in alabastro e un occhialino rotondo in metallo che Mastro Peppino si metteva sulla punta del naso quando lavorava; alla parete, al centro appariva un grosso e vecchio crocifisso costellato da una dozzina di santini. Invece nella parete laterale trovava posto un calendario e un chiodo che serviva per riporre il pesante grembiule di cuoio che indossava quando lavorava. Dal tetto, infine, scendeva un filo con un portalampada di colore scuro che arrivava a circa mezzo metro dal tavolino e nella sua verticale illuminava faticosamente tutta la bottega soprattutto durante le giornate invernali, uggiose e cupe.

Mastro Peppino era molto superstizioso, quando nella bottega non si parlava di numeri da abbinare e giocare, argomenti prevalenti erano incantesimi, spiriti e fantasmi in tutte le salse, Beddri Signuri e Beati Signuri, e soprattutto truvature, tesori nascosti, giarri chini r’oro e formule magiche per spegnare gli incantesimi. I racconti del protagonista "scarparo" erano sempre narrati con vivido sentimento e appassionante coinvolgimento emotivo e i suoi cunti conditi di aloni di misteri esoterici o fascinosi gli provocavano un brivido freddo in tutto il corpo. Un cunto di cui si fantasticava a quel tempo era di un certo personaggio della contrada che si era arricchito con il ritrovamento di una truvatura, na quartara china ri maregne r’oro. La storia vera era invece che a quartara l’aveva trovata la moglie in mezzo alle gambe del signorotto di una località vicina dove la signora faceva la nutrice e spesso si trovava ad allattare oltre al bambino, di necessità, anche il padre del bambino, di piacere.

Quando qualcuno raccontava qualche cuntu di truvatura l’immedesimazione e la suggestionabilità di Mastro Peppino era tale che spesso entrava dentro la storia sino a sostituirsi al protagonista. Se per esempio si trattava di una truvatura che doveva essere spegnata dall’incantesimo attraverso una formula magica e se la truvatura veniva mancata per un errore nella formula, ecco che Mastro Peppino interveniva come se quel cuntu fosse una storia accaduta realmente:

U sapia eo! Ma sti così a mia picchì u’mmi capitanu mai.

Si c’erà eo, astura a truvatura fussi bella misa ‘mmostra ‘ncapu u tavulu ra me casa.

Eo u sapissi comu fari a spignari u ‘ncatesimu.

E nello sperare sempre di imbattersi in una truvatura, capitò che a Mastro Peppino qualcuno fece di tutto per fargliela trovare.

Così Mastro Peppino si trovò ad essere il vero protagonista nella ricerca di una truvatura ‘ncantata, ma del tutto inventata!

Fine prima parte