"Io alla cava di tufo gestita da Agostino Evola ero solo un operaio. E quando cercavo di risolvere qualche problema era solo per non perdere il mio posto di lavoro. Anche perché, dopo essere uscito dal carcere, non ero riuscito a trovare altri lavori”.
E' così che davanti il Tribunale di Marsala (presidente del collegio: Vito Marcello Saladino) si è difeso il 57enne presunto boss mafioso Matteo Tamburello, tornato dietro le sbarre l’11 dicembre 2018 nell’operazione “Eris”.
Dda e carabinieri gli contestano di essersi mosso, dopo avere scontato una condanna per mafia, per riorganizzare gli assetti del mandamento mafioso di Mazara del Vallo, al cui vertice, nel frattempo, sarebbe assurto Dario Messina. In Tribunale, però, Tamburello si è difeso affermando che quando è uscito dal carcere, a fine novembre 2015, si è trovato senza un lavoro (aveva un’impresa di trivellazioni) e senza denaro. “Tornato in libertà – ha detto l’imputato - chiedevo lavoro a tutte le persone che incontravo. A quelle che conoscevo e anche a quelle che non conoscevo. Avendo moglie e figli, non potevo sempre andare a chiedere 50 euro a mia madre. Alle mie richieste, però, non avevo riscontri. Mi dicevano: ‘Ora vediamo…’, ma vista la mia situazione nessuno di dava lavoro. Solo uno mi disse apertamente che non mi dava lavoro per i miei guai con la giustizia, Fabrizio Vinci, che ridendo mi rispose: ‘Mi vuoi rovinare? Con tutti i problemi che hai avuto…’. Io ero disposto anche a lavare i piatti. La mia situazione economica era disastrosa. Poi, nell’agosto 2016, trovai lavoro come manovale in una cava di tufo di contrada San Nicola gestita da Agostino Evola”. Per gli inquirenti, però, era Tamburello il vero proprietario della cava, ma l’avvocato difensore Luigi Pipitone è riuscito a far cadere l’accusa di intestazione fittizia prima dell’avvio del processo. Sono rimaste le imputazioni di associazione mafiosa e di violazione delle misure di prevenzione. Ma rispondendo prima alle domande del suo difensore e poi a quelle del pm della Dda Pierangelo Padova, Tamburello ha cercato di spiegare come e perché aveva incontrato altri presunti mafiosi e rintuzzato l’accusa di essersi mosso per riorganizzare la cosca mazarese. “La mia rovina – ha detto – è stata quella di essere figlio unico di mio padre”. Sul denaro, invece, che chiedeva agli Evola di dare a Fabrizio Vinci ha spiegato che si trattava soltanto del pagamento per il lavoro di apertura della cava di tufo, mentre nell’intercettazione in cui sembrava che avesse detto “Vito Coffa”, in realtà diceva “Nino Pompa”, che era un suo ex dipendente. “E che non disse Vito Coffa – sottolinea l’avvocato Luigi Pipitone – è stato stabilito da ben due perizie”. Poi, nel dettaglio di alcuni degli incontri immortalati dagli investigatori dei carabinieri del Ros con video-intercettazioni, Tamburello ha dichiarato: “Mai visto in vita mia Raffaele Urso. Una mattina, alla cava, ci dissero di non andare via perché dovevamo caricare tufi su un camion. Poco prima ho visto un’auto, ma non sapevo chi fosse. Mi dissero che l’auto era di Tripoli. Ma non ho parlato con nessuno dei due”. Il 22 luglio 2017, l’incontro in un bar di Mazara con Dario Messina. “Andavo li a fare colazione e fu lui a chiamarmi – ha detto l’imputato – e mi disse che era figlio del ragioniere Messina. Abbiamo parlato un po', gli chiesi se lui era quello che aveva avuto problemi con la giustizia e se si era liberato, ma non lo rividi più”. Per il 2 luglio è prevista la requisitoria del pm Pierangelo Padova.