di Massimo Jevolella
Davvero c'è chi vorrebbe demolire la statua di Indro Montanelli, che si trova a Milano nei vecchi giardini di via Palestro? Ma veramente ci sono dei cretini che hanno pensato questa cosa, e vorrebbero sul serio realizzarla? Mi rifiuto di crederlo. Mi sembra una bufala. Eppure, a quanto pare, è una notizia vera. I famosi “Sentinelli”, benemerita associazione antifascista meneghina, questa volta hanno sbroccato di brutto, sotto l'effetto euforizzante delle sacrosante proteste planetarie per l'assassinio di George Floyd. E per dirla tutta: hanno pisciato ben fuori dall'orinale. E il motivo? Perché Montanelli, secondo loro, fu un esecrabile razzista, colpevole di aver comprato per pochi soldi una ragazzina di 12 anni, come “schiava sessuale”, in Eritrea nel 1936.
Andiamo allora per gradi. Cerchiamo di chiarire gli sfondi di questa triste faccenda. E mi si permetta di farlo da persona “bene informata dei fatti”, come si suol dire. E il motivo è semplice: ho conosciuto molto bene Indro Montanelli. Ho fatto parte della squadra di giornalisti del suo “Giornale” per quasi 16 anni, dal 1978 al 1993. Per tutto quel periodo l'ho incontrato, e ho parlato con lui, praticamente quasi tutti giorni, non di rado in colloqui privati, e anche fuori dal Giornale. E di lui potrei raccontare molti aneddoti che nessuno finora ha narrato, semplicemente perché furono storie avvenute soltanto tra me e lui. Magari un giorno lo farò, chissà. Per ora affrontiamo solo la questione della statua, del razzismo e della sposa-bambina.
Ma diciamo chiara una cosa, in via preliminare. Se Indro fosse vivo, dichiarerebbe di avere orrore di quella statua. E sarebbe il primo a ordinarne l'abbattimento. Di quel simulacro, ve l'assicuro, proverebbe un intimo compiacimento, questo sì, perché una buona dose di narcisismo non gli mancava affatto. Diceva di odiare i complimenti, ma in realtà li amava e faceva di tutto per suscitare l'adorazione dei suoi fans. Soprattutto delle donne. E ci riusciva, eccome se ci riusciva. Le donne le accalappiava con il magnetismo dello sguardo, con poche parole taglienti, e non c'era scampo per le prede del vecchio giaguaro, giovani o vecchie che fossero. Alcune volte riuscì perfino a “rubarmi” la mogliettina trentenne, che ogni tanto mi aspettava all'uscita del Giornale in via Gaetano Negri. Se lui la vedeva, se la prendeva con gesto perentorio sotto il braccio, e tempestandola di domande la portava a bere un succo di frutta al bar delle Tre Marie, che poi sarebbe l'antico Caffè Spadari a due passi dal Cordusio. E io dietro, a seguire la strana coppietta come un povero pirla, o un marito cornuto. E io avevo quarant'anni, e lui ottanta! Il vecchio giaguaro...
Detto questo, vi descrivo la scena. L'ufficio di Montanelli, al terzo piano del palazzo del Giornale, era in realtà uno studiolo di non grandi dimensioni, con una finestra che dava su via Negri. La sua scrivania stava alla destra di chi entrava nella stanza, e lui era lì, sempre ben piazzato davanti alla sua celebre macchina per scrivere. Davanti a lui, sulla destra, nel tratto di parete che stava accanto alla finestra, campeggiava il famoso ritratto di Destà, la sua sposa-bambina eritrea. Lui non se ne separava mai. Quel volto dolce e un po' smarrito, quella fotografia sbiadita dal tempo, era sempre lì, davanti alla sua vista, come un angelo protettore o l'icona di una santa. E lui veramente la adorava. Un giorno me ne parlò, mentre ero solo a colloquio con lui, e dalle sue parole, e dal suo sguardo, compresi che in quel ricordo si celava una carica di autentico affetto. Forse addirittura di nostalgia, di rimpianto. In pubblico parlava di lei come di un “animalino docile” che aveva comprato secondo l'usanza – allora legale – del “madamato”, e che lo seguiva ovunque, fedele e dolce nella sua strana missione di sposa temporanea. Ma nel suo intimo io credo che la amasse. E sicuramente ne era stato riamato, tant'è vero che quando Destà si risposò, diversi anni dopo il 1936, volle dare il nome di Indro a uno dei suoi figli.
Dunque, bando alle ciance. Chi fu davvero Montanelli? Un razzista, certamente no. Un santo? Nemmeno. E oggi sbagliano anche quelli che lo pongono su un altare, come un sacro mostro intoccabile. Il discorso sarebbe in realtà assai lungo e complesso. Certo, fu un uomo fierissimo della propria indipendenza. Fu un anarchico, sostanzialmente. Negli anni Settanta, quando per entrare in un giornale occorreva per forza esibire una tessera, un'ideologia, l'unico quotidiano in cui un aspirante giornalista potesse entrare senza passare da quelle forche caudine era il suo: il “Giornale nuovo” diretto da Indro Montanelli. Lì, in quella redazione, si respirava allora una vera aria di libertà. Il mio caporedattore agli Interni canticchiava ogni tanto Bandiera rossa. E il grande e dimenticato Giuseppe Grazzini se ne infischiava di tutto, e quando era di “lunga” si cucinava le uova fritte in redazione alle dieci di sera, perché essendo genovese era un gran risparmiatore e non gli andava l'idea di spendere soldi al ristorante. Intanto Nicola Crocetti traduceva poesie dal greco nei momenti buchi, e io curavo l'edizione mondadoriana delle “Mille e una notte” tra un titolo e l'altro delle pagine politiche. E non aggiungo altro: eravamo liberi perché Indro, il nostro direttore, era un uomo libero. Poi, un triste giorno del gennaio 1994, tutto cambiò perché un certo signore decise di “scendere in campo” e diventare capo del governo italiano. E questa è un'altra storia.
Ma quella statua, se ormai c'è, per favore lasciamola stare lì dov'è. Anche perché, proprio a pochissimi passi dal punto in cui essa si trova, il 2 giugno del 1977, alle dieci di mattina, due giovani brigatisti tesero un agguato a Indro, e uno di loro gli sparò a una gamba. Non foss'altro che per il ricordo di quel vile attentato, quella statua oggi merita di restare dov'è. Anni dopo, al Circolo della stampa di Milano, Indro volle stringere la mano ai suoi attentatori. Era anche un uomo che sapeva perdonare. Non era un santo, ma non era un razzista. Era semplicemente umano.