di Anna Fici
Ore 14:45. Inaspettatamente suona il citofono facendomi sobbalzare. Avevo appena finito di pranzare e mi stavo concedendo un momento di relax. Io! Il corriere al citofono no. Non hanno orari loro. Forse una volta mi sarei arrabbiata. Al corriere comunque non avrei detto nulla ma in cuor mio avrei pensato: “A quest’ora…, non c’è più educazione!”.
Tuttavia qualche tempo prima che iniziasse per tutti noi il lockdown, un film visto al cinema con una cara amica, visto in effetti per merito suo che me lo ha caldeggiato, ha contribuito a cambiare per sempre ciò che penso e ciò che provo verso questa realtà lavorativa. Si trattava di Sorry, we missed you, l’ultimo film di Ken Loach del 2019, uscito nelle sale italiane nel gennaio del 2020.
Mentre al cinema scorrevano le immagini di questo straordinario film che affronta, con grande delicatezza e attenzione per la dimensione umana, il tema del precariato nel mondo dei trasporti e del nuovo sistema economico basato sul modello Amazon, non avevamo idea di quanto, nei mesi successivi, questo avrebbe preso forza in virtù della pandemia.
La vendita per corrispondenza e le consegne a domicilio hanno una lunga storia. Ricordo da ragazza le realtà di Vestro e Postalmarket. Aziende italiane entrambe, nate tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, la cui gloriosa storia è andata avanti praticamente fino alla diffusione della telematica domestica. A cedere per prima fu la Vestro, chiusa definitivamente nel 1996. Mentre Postalmarket tentò di cavalcare anche gli anni Duemila, abbracciando l’e-commerce ma con risultati alterni. Il definitivo fallimento risale al 2015. Nel 2018 rinasce dalle sue ceneri, grazie all’imprenditore friulano Stefano Bortolussi che ne acquista il marchio. Ma a quel punto la centralità che aveva nell’immaginario collettivo è persa. I competitors sono molteplici e forti. Proprio di recente il quotidiano La Repubblica ha annunciato: «Torna Postalmarket, con l'ambizione di diventare la versione italiana di Amazon». Ma chissà come andrà.
In questo senso, la realtà di Amazon non nasce dal nulla. Si sapeva già su quale tipo di fascino potesse contare la vendita per corrispondenza. Da un punto di vista meramente strumentale, la competitività dei prezzi di tutti gli articoli, rispetto agli stessi articoli acquistati in negozio. E la capillarità della distribuzione che andava a soddisfare anche il paesino di poche anime, privo di negozi. Dal punto di vista psicologico, funzionava molto bene l’«effetto Natale». Se eri solito acquistare spesso in questo modo, i pacchi arrivavano con una certa frequenza e c’era sempre l’effetto sorpresa nello scartarli e nello scoprire di che cosa si trattasse. Tutto sembrava un regalo anche se erano merci che vi eravate comprati da soli. Tanto che la Postalmarket che conosceva bene i propri punti di forza, li aveva uniti in un jingle pubblicitario molto allegro e facile da ricordare che faceva: «Con Postalmarket sai, usa la testa ed ogni pacco che ti arriva è una festa».
Oggi che cosa è cambiato fuori e dentro il modello della vendita per corrispondenza?
Il film di Ken Loach lo racconta benissimo e nessuno potrebbe fare di meglio perché è davvero difficile trovare un così perfetto equilibrio tra la volontà reportagistica di riportare i fatti così come sono, restituendoli come sono emersi nelle numerose interviste che Loach ha raccolto prima di realizzare il film, e l’intromissione dell’artista nell’animo di chi quei fatti li vive e, nel caso specifico, li subisce. Lungi da me rubare il mestiere alla critica cinematografica ma pensando al suo modo di raccontare mi sale alle labbra una definizione, che non vuole essere una forma di etichettamento ma che credo funzioni: «neorealismo 3.0». Si tratta infatti di un sguardo neorealistico sui temi forti della società globale. E quali sono questi temi?
Da alcuni decenni si parla di «smaterializzazione». Si tratta di una espressione introdotta dal settore finanziario in riferimento alla finanziarizzazione dell’economia avviatasi a livello globale negli anni Ottanta e poi utilizzata in riferimento alla nuova gestione della burocrazia e al superamento del settore produttivo da parte del settore terziario, ovvero dei servizi. L’informatica, la comunicazione telematica e l’evoluzione delle varie forme di intelligenza artificiale sono state – rispetto a tutto questo – condizioni necessarie ancorché non sufficienti. A seguito della diffusione capillare di Internet nei paesi del Primo Mondo, alcuni sociologi ed economisti hanno tentato di promuovere l’on line sia per quanto riguarda il settore produttivo sia per quanto riguarda il consumo. Al telelavoro, caldeggiato in Italia fin dagli anni Novanta dal sociologo Domenico De Masi, al ricorso all’automazione nelle fabbriche e/o alla delocalizzazione della produzione, affidata a mercati del lavoro decisamente più competitivi del Secondo e Terzo Mondo, ha fatto da complemento la realtà dell’e-commerce. La realtà fisica dei negozi, degli uffici, di strade e quartieri, avrebbe subito un considerevole ridimensionamento a tutto vantaggio dell’ambiente - era questa la tesi - e dei costi per produttori e consumatori. Ma i lavoratori? Che poi sono gli stessi consumatori o il prerequisito affinché ci siano famiglie consumanti? La nuova economia globale ha mostrato di non volersene più accollare i costi né la responsabilità. E ciò che il modello dell’e-commerce in effetti ha realizzato pienamente (e il film lo racconta benissimo), è la cessione delle responsabilità connesse ai rischi insiti nel lavoro dipendente al lavoratore stesso, forzato a farsi autonomo.
- «Tu non sei assunto qui. Tu sali a bordo. Ci piace chiamarlo ‘salire a bordo’. Tu non lavori per noi, lavori con noi», viene detto a Ricky, il protagonista del film di Loach. «Non guidi per noi» - il lavoro che gli viene offerto è come corriere per le consegne - «Non ci sono contratti di assunzione né obiettivi di produzione ma standard di consegna. Non ci sono salari ma parcelle» E’ il manifesto di un nuovo modello di business che si rivelerà più impietoso del vecchio, caro capitalismo.
Il sogno di una casetta di proprietà per la propria famiglia, composta da moglie, anch’essa lavoratrice precaria (fa da badante a diversi anziani) e due figli in età scolare, appare al protagonista irrealizzabile da dipendente a tempo determinato. Ha già dovuto cambiare numerosi lavori. Giunge allora quella che Ricky vede come una buona occasione: con la vendita dell’automobile della moglie, che sarà costretta a spostarsi con i mezzi pubblici per andare a lavorare, affrontando spostamenti anche lunghi e pesanti, sarà possibile fornire un acconto per l’acquisto di un furgone che permetta a lui di diventare un trasportatore freelance con un sensibile incremento nei guadagni. Una situazione tipica, scelta per raccontare la nuova schiavitù: anche se non si lavora con obiettivi di produzione, se eventi casuali e di cui non si è responsabili come un incidente al proprio mezzo o una malattia, portano il lavoratore al di sotto degli standard vigenti, questo diventa immediatamente un ingranaggio difettoso del sistema, privo di ogni ammortizzatore che lo assista quando verrà rottamato. E la tragedia ulteriore sta nel fatto che la malattia e l’incidente su strada sono l’effetto della velocità e inarrestabilità a cui il sistema lo costringe.
Il vantaggio ambientale di un tale sistema? Anche questo è stato messo sotto processo per esempio dalla trasmissione Report della Rai che ha messo in evidenza come il digitale e il suo indotto sia responsabile di una fetta significativa del riscaldamento globale. Ci sono tanti studi che lo confermano. Sia per la produzione dei device come computer, smartphone e tablet, e dei vari componenti, sia per i combustibili fossili utilizzati per produrre la corrente elettrica necessaria al funzionamento di data center, dei server e delle apparecchiature di rete. La rivista Focus già nel 2012 riportava le preoccupazioni di Greenpeace. Secondo quest’ultima, nel 2020 Internet consumerà più energia di Francia, Germania, Canada e Brasile insieme. A finire quindi sotto accusa sono i grandi operatori come Facebook e Google, responsabili, secondo gli ecologisti, della costruzione di grandi centri di elaborazione dati che consumano moltissima energia elettrica.
Anche i nuovi servizi, come il Cloud, hanno un impatto negativo sull’ecologia. Infatti, imprese come Apple, Microsoft e Amazon utilizzano enormi quantità di energia, spesso attinta da fonti inquinanti, per offrire i loro servizi Cloud. In risposta a queste preoccupazioni, Google ha per esempio messo in campo diverse iniziative per ridurre il proprio impatto inquinante e monitorare le emissioni inquinanti nelle città. Tuttavia il problema esiste. Per non parlare degli effetti del trasporto su ruote. E del subdolo o meno subdolo controllo sulla nostra privacy, sia a fini commerciali che, in alcuni deprecabili casi, politici. Argomenti enormi, che spaventano ma che vanno affrontati.
E che dire del sogno del telelavoro? Beh, lo ha distrutto il Covid-19 mostrando a tutti come l’economia reale su cui si fonda il quotidiano, non soltanto da un punto di vista materiale ma anche dal punto di vista del sentimento di appartenenza agli scenari urbani, dal punto di vista dell’affezione alla socialità anche spicciola delle nostre routine, sia fondamentale anche per il nostro equilibrio psicofisico. Corpi che non si spostano, che non affrontano il necessario movimento, entrano in uno stato di sofferenza cronica che acuisce la spesa sanitaria e la acuisce a lungo termine perché aggiunge all’innalzarsi delle aspettative di vita tutti i problemi connessi all’invecchiamento precoce della nostra struttura fisica. Menti prive del necessario rispecchiamento in una alterità varia come quella degli incontri casuali in strada, si inaridiscono. L’organizzazione del lavoro, che nella versione smart un tempo si immaginava a vantaggio soprattutto delle donne, si è rivelata deleteria per la concentrazione, la gestione dei figli da parte di entrambi i genitori, dato che anche i figli hanno vissuto in teleapprendimento (o telelearning per gli amanti degli inglesismi).
Che idea positiva di futuro rimane in piedi da tutto questo? Non si sa. Non è facilmente immaginabile. Quel che è certo è che dobbiamo imparare a pensare complesso, ad andare in controtendenza e a rifiutare ogni semplificazione e ogni slogan. Quel che è certo è che dobbiamo giocare d’anticipo sul manifestarsi di tutti gli effetti indesiderati e boomerang di ciò che ci appare desiderabile. Dobbiamo usare la tecnologia a nostra disposizione per smontare ogni facile ottimismo e vedere cosa regge al vaglio di un pensiero, di una analisi articolata e complessa. Per sapere, solo a mo’ di esempio, che la mobilità elettrica non è tutto oro che luccica, e saperlo ben prima che ce la impongano e che diventi mainstream. E’ noto infatti che la produzione e lo smaltimento delle batterie non è questione a impatto zero e che la sicurezza per i conduttori delle automobili elettriche in caso di incidente non è proprio al massimo. Ogni cosa va pensata nei suoi risvolti globali. Una volta era il compito assegnato consensualmente agli intellettuali. Ma poi non si sa come, o lo si sa benissimo ma si evita questo discorso come la peste, «intellettuale» è diventato parola d’offesa, «professore» è parola che puzza di muffa. E nei media non si può affrontare un discorso che superi il minuto o le tre righe. La cultura globale doveva consistere in uno step più evoluto della nostra capacità di pensare il mondo. Nella capacità di pensarlo tutto e di pensare a tutti. Di evolverci o tutti insieme o niente. Invece….