Memorie della mia città: l'Eden di Trapani - Il paradiso perduto era un triangolo isoscele incastrato all'ombra della montagna di Erice fra orti, ulivi, mandorli, rovi, e tramonti sanguigni. Col sole che ci metteva un tempo infinito a trafiggere la prateria. Una esperienza mistica con le luci che si spegnevano lentamente su pomeriggi immobili come fotografie. E dipingevano la campagna trapanese di tinte mai viste prima: il verde delle sterpaglie, l'azzurro dei canali, i rovi incendiati dal rosso delle more, la geometrica bellezza di ortaggi trapuntati su anonime contrade. Un lento migrare di colori nutrito dalla meraviglia della scoperta. Una scossa di adrenalina dritta al cuore; l'illusione che tutto ciò sarebbe durato per sempre. Una specie di balzo in avanti aggrappato alle chimere dell'immaginario. Un campionario sospeso in attesa di essere svelato, violato dallo stupore di una infanzia che invece mutava. E segnava col compasso delle ore, solchi indelebili su quegli ultimi cerchi di innocenza. Quell'angolo segreto era il luogo magico in cui gli attimi si piegavano allo spazio. Da un lato le case basse della immediata periferia di Trapani stretta fra due chiese, la Madonna di Trapani e San Giuseppe.
E dall'altro il far west, una zona vergine accerchiata da una natura improvvisa, libera dal vortice di una massa compatta di cemento che da lì a poco l'avrebbe offesa, cancellata, stritolata. Con i supermercati, i palazzi in cooperativa, perfino un pezzo di autostrada. Il Giardino Eden, una sala di ricevimenti, si ergeva solitario nella campagna, attaccato da un cordone di ghiaia alle estreme propaggini della città. Alle spalle, il suo profilo ridondante di piante rampicanti spingeva con un movimento lento l'ombra sdoppiata dell'edificio. Unico punto di riferimento per orientarsi in mezzo a quel meraviglioso nulla. Una forbice dai muri rosa schiusa fra cielo e orizzonti ignoti punteggiati da colli sormontati da tetti e campanili sottili come indici puntati sulle nubi.
Un viottolo incastonato fra gli ultimi fabbricati di borgo Annunziata, sgomitava ammantato di alberi di fichi e cespugli di disa, fra tunnel oscuri di olivastri e gelsi, coi piedi che calpestavano bacche e sassi aguzzi. In fondo, una porta luminosa d'un tratto si apriva impaziente su un pianoro aggrappato ai fianchi delle senie, il nome arabo degli orti trapanesi, che lambivano più giù le ville costruite alla fine dell'Ottocento dai ricchi possidenti di Trapani. Le auto, le botteghe, il cupo frastuono del quartiere, erano lì a due passi; eppure quella mulattiera segreta era il codice di accesso spalancato su un paesaggio selvaggio, lontano anni luce da quel cammino di pochi minuti. I corridoi perfettamente simmetrici di pomodori, zucchine, carciofi e melanzane, disegnavano inattesi cruciverba di terra vicino a piccole baracche di legno con i tetti coperti da foglie di palma; attorno solitari contadini incurvati su ceste piene di ortaggi parevano statuine di un presepe fuori stagione.
Minuscole ragnatele d'acqua assediavano il perimetro degli orti, infestate da una fitta vegetazione che custodiva gelosa, come a proteggerli da sguardi indiscreti, i suoi ospiti: le rane. Che non erano grosse e simpatiche come quelle dei cartoni animati alla televisione; erano piccole e viscide ed era impossibile tenerle in mano. Più facile era prendere i girini. Bastava un bicchiere o un retino. I più curiosi li catturavano per vederli crescere a casa in una boccia di vetro. Per ributtarli nei canali al compimento della loro metamorfosi. Una grande gebbia utilizzata per l'irrigazione dei campi si mimetizzava coi muretti a secco che delimitavano le proprietà. I più grandi si divertivano a pescare con la canna e l'amo i preziosi inquilini: le anguille. Vederle dimenarsi anche fuori dall'acqua era uno spettacolo unico. I pesci rompevano in un fragore di schizzi lo strato limaccioso che in superficie macchiava di muschio la vasca, per poi ricompattarsi magicamente come una ferita rimarginata. Una distesa di disa conduceva a un boschetto di mandorli. Una oasi di frescura, ma anche la sosta provvidenziale delle greggi al pascolo. Una visione rapida, quasi un'apparizione, un breve scampanellio, l'abbaiare dei cani, e poi via. In un lampo tutto si spostava altrove, come inghiottito da un cono d'ombra.
Con la disa si faceva la gara delle lucertole. La tecnica era semplice: un nodo scorsoio nella parte finale della pianta ripulita dalle foglioline spinose, e il cappio era pronto. Il laccio andava infilato lentamente nel collo della lucertola e poi tirato su. Non era semplice perché i rettili al minimo rumore scappavano a nascondersi sotto le pietre. Pochi secondi, giusto il tempo di segnare il risultato della insolita competizione e l'animale tornava libero. Nel far west non potevano mancare i cavalli. Uno scalpitio come sbarre di ferro sul muro scuoteva il silenzio. Una mandria di ronzini galoppava su e giù ai margini della prateria, in attesa di essere cavalcati da improbabili cow boy, forse i figli dei pastori, o i padroni delle belle ville con le torri. Il fortino, invece, era un rudere piantato in mezzo alla scena come una sorta di convitato di pietra. Doveva essere stato un baglio, un deposito di granaglie, una casermetta, oppure una stalla. I muri esterni erano così spessi da avere resistito a chissà quali avvenimenti.
Raccontavano di averci trovato l'elmetto di un soldato della prima guerra mondiale, e sulle pareti c'erano scritte in tedesco incomprensibili, matricole militari, dichiarazioni d'amore. Il perimetro esterno racchiudeva una voragine causata forse da un ordigno bellico. Un piccolo canyon ricoperto di olivastri, corbezzoli, fichidindia, capperi. Piante e alberi cresciuti obliqui, con le braccia intrecciate, alcuni proprio paralleli al piano, attaccati chissà come a fazzolettini di terra miracolosa. E poi rovi di more ovunque. Così carichi di frutti da sembrare drappi di seta verde a pois rossi. Nel pomeriggio il fortino si affollava di biciclette da cross; la più ambita era la Tintin, sponsor in quegli anni di una marca di merendine. Aveva le ruote con gli ammortizzatori, il sedile con la spalliera, la radio a pile, e qualcuno l'aveva vinta proprio col concorso delle brioscine. Il dirupo era la pista ideale per provare i brividi dell'avventura: un saliscendi sterrato e senza freni. Il pubblico assiepato su una piccola tribuna di balle di paglia, sottolineava le imprese degli audaci crossisti con applausi e incitamenti.
Il tramonto consegnava il selvaggio west alla memoria di un tempo fermo, eppure incredibilmente distante. Lontano anche dagli incubi che un giorno avrebbero cancellato tutto. Una idea di bellezza avvelenata da grappoli di palazzi e anonime strade di periferia. Un disperato oblio di luoghi e storie. L'innocenza perduta di un piccolo paradiso poco fuori dalla città.
Di Giacomo Pilati da Repubblica