Oggi, al Convento del Carmine di Marsala, alle 19, lo scrittore Salvo Ales presenta "Non avviarti mite" (Nuova Ipsa Editore). L'incontro sarà moderato da Rosa ingrassia e vedrà la partecipazione di Vita D'Amico e Gianfranco Perriera. Sarà previsto anche un momento di letture curato da Adriana Di Giovanni.
Dice Montale che ogni figlio sconta, nei confronti del padre, un sentimento naturale e indispensabile, la rancura. Parola d’origine dantesca, la rancura non deve essere intesa come il più facile rancore, non è semplicemente quell’avversione profonda e prolungata che spesso suscita la figura del padre. La rancura è molto altro, e per entrare a fondo nella questione, una lettura di straordinario interesse è certo offerta dal memoir di Salvo Ales, «Non avviarti mite» (Nuova Ipsa Editore, 60 pp., 8€).
Ales traccia con parole sicure e attente riflessioni il ritratto di suo padre e della malattia di Alzheimer che segna gli ultimi anni della sua vita. Ne sottolinea il nitore e l’ombra, e le contraddizioni, come se per scrivere al posto della penna usasse la matita sanguigna, rivelando così il carattere intimo e ferroso del legame che li unisce. Ma il libro, a nostro avviso, non ha al centro il complesso tema del ruolo paterno; per Ales delineare il profilo del padre, e della malattia che a poco a poco gli sottrae la memoria degli affetti, significa affrontare il problema della mancanza, della perdita irreparabile, delle lacune lasciate aperte. «Ho la sensazione, scrivendo queste pagine, di volere affrontare preventivamente l’esperienza possibile di un vuoto, precisamente l’esame di una perdita; m’illudo soprattutto, scrivendo, di dare almeno dignità a quest’eventuale mancanza. Mai come stavolta le parole riveriscono il fine ultimo di sopportare la ferita della realtà».
Ecco, quello descritto dall’autore è uno stato d’animo che trova sintesi nella parola rancura. Che indica proprio l’angoscia inestinguibile che ciascuno di noi prova di fronte a una mancanza, di fronte al tentativo di colmare il vuoto che ci separa dall’altro, all’impossibilità di sanare le ferità della realtà. Ales stende queste sue memorie per provare a curare la rancura che patisce, finché scrivendo non si accorge che è proprio la rancura, proprio l’evocazione delle mancanze che segnavano il rapporto con suo padre, a rendere a lui prossima e necessaria la figura di quell’uomo. «La tua figura di padre non è mai venuta meno (anzi, s’è rinsaldata) e quelle mancanze che ho sentite affini alla mia figura di figlio, in fondo, mi riconciliavano con le tue stesse mancanze».
Una figura così prossima e necessaria che finisce per confondersi con la propria, invertendo i ruoli: il padre a un certo punto diventa figlio, e il figlio padre. «Mi scoprivo ogni giorno a soccorrerti e a sorreggerti negli inciampi della memoria e del corpo, la malattia si era conferita il diritto di recidere il nostro legame, privandoti di quella forza e di quella personalità con le quali io, figlio, avevo sino allora convissuto». È questa sicuramente una delle testimonianze più preziose che ci offre «Non avviarti mite», l’idea che in noi figli, o in noi padri, risieda sempre l’essenza e l’assenza dell’altro, la sua presenza e la sua mancanza, in una dualità felicemente irrisolta.