Quando finiscono le parole, comincia il racconto. È una conseguenza illogica eppure naturale. Quando ci mancano le parole per definire con precisione un evento o un dolore, per porgli dei margini o per estenderlo, allora abbiamo bisogno di raccontarlo, di dargli una voce perché sia esso stesso a descriversi, a pronunciarsi.
Ecco, lo spettacolo «Tu che nella notte nera» di Katia Regina e Giacomo Bonagiuso, andato in scena al Complesso Monumentale San Pietro di Marsala il 9 agosto, riflette proprio sull’impronunciabilità di certi dolori, anzi sull’impronunciabilità dei dolori più assoluti.
Katia Regina e Giacomo Bonagiuso, parafransando la poetessa Jolanda Insana, si fanno pupari di un teatrino di due soli pupi, «lei e lei/ lei si chiama vita/ e lei si chiama morte». A prendere il centro della scena è la figura della morte, una donna senza nome, cui l’attrice Diana D’angelo presta il corpo. Violentata dalle depravazioni del padre, umiliata dai silenzi dalla madre, schernita da tutto il paese, è la perfetta rappresentazione del foucaultiano “anormale”.
Senza redenzione e senza speranza, si potrebbe pensare. Chi potrebbe mai scampare ad abusi così feroci e continui? Ebbene, l’aspetto più interessante dello spettacolo è proprio la redenzione dalla violenza e dall’odio subiti. Per tutta la durata del suo monologo, non c’è un momento in cui la voce di D’Angelo non si confessa innamorata. Nonostante tutto il male, quella figura violentata, umiliata, schernita, è innanzitutto una donna che crede nell’amore e che ama. Ama chi la ferisce, ama chi la svilisce, chi le toglie la parola, ama chi sogna di amare.
E questo amore lo impara dalla vita, il secondo pupo della pièce di Regina e Bonagiuso, che viene mediata dalla voce della zia di D’Angelo, interpretata da Irene Gambino. Quella voce, a intervalli precisi, si trasforma in canto, un canto antico e ancestrale, che le detta la forza per continuare a rispondere con le parole del desiderio di esistere e di durare a tutti i tentativi escogitati per farla soccombere.
La sua, allora, non è una redenzione divina, non c’è divinità o spirito guida. Ci sono solo due voci di donna, lei e lei, la morte e la vita, che professano la loro inestinguibile fede nell’amore.
Sopraggiungono chiari adesso i versi di Saffo che danno il titolo alla rappresentazione:
Sogno, tu che nella notte nera
ti aggiri quando il sonno mi avvolge,
dolce Dio, con terribili affanni mi esorti a tenermi
lontana dalla potenza degli dei.
Ma la mia speranza non è di avere parte
delle cose dei beati. Non questo io spero.
Così sciocca non sono. Io solo
piccole cose, e belle, trastulli desidero.
Questo mi tocchi...
Bisogna trovare il modo e l’opportunità di vederlo, «Tu che nella notte nera». È un racconto che entra nelle ossa e chiede a tutti noi un riscatto di sguardi, di partecipazione, di passione.
Marco Marino