di Lavinia Spalanca
Se dovessimo abbozzare un ritratto dell’attuale condizione femminile, in un’epoca di presunta parità fra i generi, non potremmo che incorniciarlo sotto il segno del dualismo o, meglio, di una dialettica dei contrari. Da una parte – come risulta evidente – la donna si è emancipata da una condizione di schiavitù e subalternità all’universo maschile, nonché ai tanti ruoli e incasellamenti imposti dalla tradizione, nel raggiungimento dell’anelata autonomia, soprattutto economica; dall’altra, ha scontato a caro prezzo questo sofferto risultato, specie in un Paese impreparato culturalmente come il nostro, che sembra aver rovesciato il celebre slogan femminista “A woman needs a man like a fish needs a bicycle” (Una donna ha bisogno di un uomo come un pesce di una bicicletta) nel motto popolare “Hai voluto la bicicletta? Ora pedala!”. Da angelo del focolare, la donna è giunta infatti suo malgrado ad un penoso bivio: o conciliare l’inconciliabile – creatura multitasking frustrata da un perenne senso di colpa – o rinunciare ad un pezzo di vita – forever single or childless – e questo in una nazione in atavico ritardo su tutto: mentre la Francia rivoluzionaria incoraggiava le battaglie civili di Olympe de Gouges, e la più compassata Inghilterra, quasi un secolo dopo, accoglieva le proteste delle suffragette, l’Italia si svegliava dal suo torpore fra il 1970 (legge sul divorzio) e il 1978 (legge sull’aborto).
A cosa dobbiamo tanta arretratezza? La colpa è solo ed esclusivamente maschile, o è lecito intravedere una sottile complicità da parte di alcune creature muliebri? Cominciamo dalla prima questione, che potremmo battezzare, alla Stieg Larsonn, “uomini che odiano le donne”. Il fenomeno del femminicidio altro non è che un pericoloso tentativo di ‘ritorno all’ordine’: alla rivoluzione femminista è subentrata, cioè, una pietosa restaurazione maschilista. L’obiettivo, insomma, è quello di perpetrare l’antico stato di subordinazione al maschio, strenuamente combattuto dalle donne, e per farlo si utilizza la violenza al fine di assoggettare fisicamente e psicologicamente la vittima e di annientarne, così, l’identità. L’uccisione è solo l’ultimo atto di un percorso di annichilimento che si manifesta spesso nelle forme dello stalking, approdo inevitabile dell’uomo impotente sempre più invischiato nella sua spirale d’odio. Quest’ultimo si trova infatti in una condizione difficilmente apparentabile a quella sperimentata dai propri genitori, quando i rapporti sentimentali duravano a lungo senza troppe scosse. Ma era proprio così? È sicuro che questa presunta durata dei rapporti fosse soltanto il frutto dell’amore, del sacrificio, dell’impegno e non l’esito, talvolta, della legge del bisogno, che incatenava le donne ad una dipendenza finanziaria per la quale ingoiavano rospi a non finire? E non si pensi soltanto al passato, soprattutto in certa angusta provincia siciliana dove l’inferiorità economica femminile è ancora il perfetto collante di coppia. A ciò si aggiunge un fenomeno legato all’avvento del digitale: la gogna mediatica – subdola forma di femminicidio – cui vanno incontro le donne che esercitano un ruolo pubblico, e perciò definite “donne pubbliche”, con quella sprezzante ironia cui il nostro tempo cinico ci ha abituati. Fra atavismi e modernismi, o meglio, atavismi celati dietro una finta modernità, internet è spesso il regno della diffamazione femminile, quanto più compiaciuta in virtù dell’anonimato maschile. Il ‘ragionamento’ è, con parole brutali, più o meno il seguente: se un uomo perde le staffe vuol dire che ha le sue ragioni, se una donna perde le staffe vuol dire che non scopa. Il tutto autorizzato da ‘autorevoli’ firme del giornalismo italiano.
Andiamo adesso alla seconda questione, che battezzeremo con la formula “donne che odiano altre donne”. Si può azzardare che alcuni esseri femminili, soprattutto oggi, si rendano (in)volontariamente complici di certe logiche maschiliste? Purtroppo sì, verrebbe da rispondere, e ciò in presenza di due sindromi tipicamente contemporanee: la sindrome della “donna del capo” e l’abominevole “sindrome di Narciso”. Cominciamo ad esaminare la prima. Chi è la donna del capo? È la variante odierna della cortigiana cinquecentesca, la favorita del principe che diventa la pupilla del politico di turno, così affascinata dal luccichio del potere da vivere nel suo cono d’ombra, così fragile mentalmente da attuare comportamenti scorretti verso altre donne. Ecco che la solidarietà femminile cede il passo all’istinto primordiale, l’altruismo all’egoismo, la generosità alla ‘sopravvivenza’. Un fenomeno che investe le alte sfere, dal mondo politico a quello universitario, e che ha una precisa correlazione con lo zeitgeist, lo spirito del nostro tempo. Solidarietà vuol dire anzitutto convergenza di idee e ideali. Appunto, idee e ideali, perché come diceva Gaber “un’idea finché resta un’idea è soltanto un’astrazione”. E aggiungeva: “se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione”. I movimenti femministi degli anni ’60 e ’70 non erano soltanto moti spontanei, ma lotte organizzate e sostenute, per lo meno in un certo periodo, da una rappresentanza politica, e diffuse da appositi organi di stampa, che davano concretezza alle urgenti rivendicazioni sociali. Oggi è ancora così? O non prevale piuttosto lo spontaneismo? Ecco che alla solidarietà e alla condivisione sono subentrati l’individualismo e il ripiegamento, e qui arriviamo all’altra patologia del nostro secolo, la “sindrome di Narciso”. Per un paradosso solo apparente, la mutazione dell’individuo in consumatore, il naufragio del cittadino nell’indistinzione della massa ha prodotto, anche nelle donne, il bisogno prepotente di affermazione, ma non nell’accezione precedente, all’insegna cioè della collettività. Il multimediale diventa infatti il palcoscenico virtuale dove esibire il proprio ego in modo compulsivo, dove fare le rivoluzioni a colpi di “mi piace”, nel segno della beffa, poiché ci si illude di ottenere un riconoscimento sociale che non esiste di fatto nella realtà. Ecco allora affiorare due pseudo ‘emancipazioni’: da una parte quella estetica – del tipo, mi vesto come una sgualdrina ma le camicie di mio marito le stiro alla perfezione – dall’altra, e in maniera ancor più subdola, quella che coincide con la ricerca del potere. Ma si badi bene. Uno è il potere di agire, un altro il potere sostantivo, ossia la riproposizione di quegli stessi meccanismi di subordinazione subiti, una sorta di vendetta postuma contro le antiche sopraffazioni. Il peggio, insomma, del maschilismo sotto vesti muliebri. È qui che si gioca la vera partita fra i sessi: nella capacità femminile di non farsi irretire da questa bieca e seduttiva forma di potere, ricadendo negli stessi errori maschili per i quali tante donne hanno lottato, si spera non vanamente.