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05/09/2020 06:00:00

Un'appassionata mitezza. Come un canguro innamorato della vita

Da oggi fino a giorno 12 sulle pagine di TP24 ricorderemo la figura e la produzione di Michele Perriera. Cominciamo con un articolo di Marcello Benfante che si concentra sullo zibaldone di Perriera, Con quelle idee da canguro.

di Marcello Benfante

Di solito, quando ripensiamo a Michele Perriera, quando lo ripensiamo astrattamente come autore e maestro, lo ricordiamo in primo luogo come un uomo di teatro, e riallestiamo nella nostra mente la memoria scenica dei suoi lavori, per come li abbiamo vissuti da spettatori, nel buio mistico e misterico della sala.

Lo pensiamo cioè, in qualche modo, religiosamente, come uno sciamano o un taumaturgo, un sacerdote civico di riti collettivi, catartici o contagiosi, in cui ci siamo riconosciuti e talora riscattati.

Solo in un secondo tempo, sebbene quasi immediato, ci sovviene che egli fu anche un potente drammaturgo e che l’emozione che sorgeva sul palcoscenico si sostanziava, almeno in parte, del sentimento che risiedeva nella pagina, nella parola dello scrittore.

Non facile, non ovvio, mai scontato, Michele Perriera è stato uno scrittore vigoroso e insieme delicato, visionario e militante, pervaso da una grazia dolorosa e da un realismo distopico. Un narratore, sperimentale e scaleno, di favole oscure, di profetiche allucinazioni, talora disorientanti, sempre inquietanti. E insieme un autore attento alla realtà, al presente, alla storia, provvisto una scrittura saggistica e giornalistica assai raffinata e incisiva in cui riversava tutta la sua passione per l’uomo e il suo impegno etico-politico.

Fra i non addetti ai lavori, come me, circolavano voci e leggende sul conto della apparente crudeltà (nel segno di Artaud) del suo teatro, del suo laboratorio alchemico. Perriera, secondo tali racconti, era un Maestro severo, intransigente, tagliente, temibile, talvolta perfino collerico. E anche a me, forse per suggestione indiretta, sembrava a tratti di scorgere nei suoi lavori teatrali un che di furibondo e spietato che mi faceva soffrire (certe posture faticose degli attori o certi forzati immobilismi, per esempio, che scatenavano in me angoscia e senso di oppressione). Quando ebbi la fortuna e l’onore di conoscerlo personalmente e di frequentarlo in qualche particolare occasione scoprii invece un uomo dolcissimo, del tutto incapace di sopraffazioni intellettuali.

La sua mitezza era nel contempo un tratto caratteriale, culturale e politico. Era una mitezza profonda che scaturiva dalla sua sapienza, dalla sua ricerca di giustizia, dall’adesione alle rivendicazioni degli ultimi.

“L’amore più amabile è un’appassionata mitezza”, ha scritto, con un felice ossimoro, in uno dei suoi libri più belli, in quel diario-zibaldone di un moralista-cronista sottotitolato “Trentasei anni di note ai margini” (1).

Non un sentimento tiepido, quindi. Bensì capace dei furori eroici e travolgenti della passione.

La mitezza, pertanto, intesa come sublime qualità rivoluzionaria, tesa concretamente a trasformare e trasfigurare le nostre esistenze e i nostri rapporti sociali, come essenza e metodo di un socialismo gentile da reinventare e porre su nuove basi. Così come si delinea e configura, d’altronde, nelle pagine di un altro grande libro di Perriera, l’intervista testamentaria dedicata alla memoria dello storico e giornalista Marcello Cimino (2).

È la “deliziosa utopia” dell’armonia tra pensiero e azione, tra ragione e storia, tra individuo e società, tra esistenza e intelletto. Ovvero la felice intuizione o premonizione di un socialismo creativo e libero, capace di rinnovarsi ed emanciparsi pacificamente e insieme di recuperare le radicali istanze e ragioni dei suoi inizi.

Riflettendo sulla caduta del Muro di Berlino e sul crollo internazionale del comunismo, Perriera, ancora nelle pagine di Con quelle idee da canguro, non censura un liberatorio “finalmente” in cui si riassume il sollievo per la rovinosa fine di un sistema di oppressioni che sembrava incrollabile. Ma subito dopo sottolinea il pericolo che tra le rovine possa perire o perdere senso anche “la critica dell’economia capitalista e la cultura dell’eguaglianza”, che restano ancora valori e ideali irrinunciabili.

“Lasciamo pure che il nome comunismo – che si è macchiato di colpe imperdonabili – faccia oggi il suo duro esame di coscienza, ma ricordiamoci della sua bella fantasia, come della mappa di un tesoro nascosto” (p. 214).

Finito l’incubo della dittatura, è bene che permanga il conforto stimolante del sogno, il suo fondamentale ruolo di ispirazione stimolante.

“Solo le grandi utopie rendono umana la politica. E quando non è nutrita dall’utopia, la politica è un’infetta salumeria” (p. 164).

È un esempio emblematico della dialettica diagonale e strabica di Perriera. Al contrario del bradipo (altro animale totemico dello zoo perrieriano) il canguro, apparsogli in Australia come una dolcissima e derisibile epifania, possiede una velocità ondivaga, un che di imprevedibile e repentino che salta e ingloba i nessi intermedi. Che li riassume con giocosa agilità.

Perriera è consapevole delle insidie del pensiero utopico, da cui storicamente il marxismo ha inteso sottrarsi, ma sa pure che “l’intelligenza di sinistra” rischia di diventare “cinica, snobistica, coprofila”: un orrore, un obbrobrio.

“Perché ‘la sinistra’ senza utopia rimane solo un vizio, un odio, un esercizio narcisistico” (p. 200).

Lo stesso spirito del ’68 se “fosse meno perentorio, meno settario, meno persecutorio, meno leninista, sarebbe perfetto” (p. 68).
Così è pure per la scrittura, che non può esaurirsi in un vorace avanguardismo senza correre il rischio di trasformarsi in un nevrotico sfoggio di vuote formule.

“Fra gli intellettuali, quelli di ‘avanguardia’ sono divenuti spesso i più famelici, i più intolleranti, più bigotti. Forse perché ‘l’avanguardia’ è spesso il distintivo dello snobismo più frenetico, del carrierismo più isterico. Penso con dolore a certi grandi dell’avanguardia storica e a tanti deliziosi amici che praticano la sperimentazione con ben altro rigore, con ben altra dolcezza, con ben altra ironia” (p. 134).

A privarla della sua autoironia, l’avanguardia si rivela assai più misera, proprio come la Sinistra e l’Intellighenzia senza autocritica.
Politica, cultura, arte, anche quando sono (o sembrano) le più prossime alla nostra sensibilità, si rivelano corrose dalla stessa tabe che devasta la società civile.

“Tra i più instancabili affaristi ci sono moltissimi intellettuali italiani. Vendono a tutto spiano i loro piccoli elisir di vanagloria. E sono orgogliosi di questo” (p. 206).

Sono privi di rigore e di senso della responsabilità. A sorreggere la vacuità del loro pensiero è un superlativo narcisismo, che d’altronde è l’autentico spirito del tempo (di cui Perriera individua tracce perfino nella mafia).

Contigui al Potere, sulle scia di un eterno machiavellismo, questi intellettuali dalla predatoria furbizia sono il risvolto di una politica di “brutti ceffi” che si sbranano reciprocamente mentre divorano le città del nostro inferno quotidiano.

E tuttavia in tale assordante massacro, in tale oscena orgia, è doveroso restare. Per dare esempio e testimonianza, forse. Per mantenere viva una speranza, un sogno.
“Essere costretti a emigrare è sempre un destino orribile” (p. 56). Una morte civile, dell’anima, “una strage di sentimenti”.

A chi gli domanda perché mai non è fuggito via da Palermo, Perriera risponde: “Perché dovendo comunque emigrare è meglio abitare nella città straniera che più ti è cara” (p. 196).

Palermo, dunque, come luogo fatale di alterità e solitudine, di scacco e di arrocco, di affetti e incomprensione, di scoperte e sconfitte, memorie e oblio. Palermo città dilaniata e dilaniante: “la puttana, la strega, la vittima, l’agnello” (p. 250) in cui vige un principio ineludibile di distruzione e disperata delusione.
Una città che nega se stessa e rinnega il suo ancestrale rapporto con la morte e con i morti: “la città che sapeva resuscitare i morti ora è soffocata e dilaniata dalla paranoia della morte” (p. 170).

Si muore sempre ingiustamente, è vero. Ma soprattutto in una terra “così violenta, così spossata”, dalla quale tuttavia non ci si può staccare. D’altronde, il destino degli scrittori è di scrivere lapidi.

“Forse lo scrittore è l’amanuense dello spazio vertiginoso che c’è fra la vita e la morte e fra la morte e la vita” (pp. 240-241)

È in questo interstizio o intervallo che si colloca la scrittura, sospesa in un tempo di memoria o di speranza, provvisoriamente sfuggendo agli agguati fatali di un presente rapace.

Nella città violenta il teatro non può che essere la cartina di tornasole di un fenomeno di sadismo collettivo, che ora si subisce e ora si esercita con orrida fascinazione.

Nel 1973 Perriera mette in scena il Macbeth al Teatro Biondo di Palermo. Il foyer, i corridoi, la sala sono cosparsi di attori che si fingono morti, di corpi martoriati e inerti che accolgono gli spettatori con un macabro monito.

La scena, il prologo, questa atroce continuità tra il luogo della finzione e quello del pubblico, tra la morte drammaturgica e quella reale, tra il teatro e la città, scatenano uno choc morale e intellettuale.

“Ma davanti a quei corpi immobili molti spettatori hanno perso la testa. Sembravano posseduti da un interrogativo quasi maniacale, che li esagitava terribilmente: si trattava di corpi veri o di pupazzi? Non si appagavano del dubbio, volevano la certezza, la cecavano. Come? Sferrando calci agli attori, schiaffeggiandoli, strizzando loro le braccia, i seni, le gambe. Dovunque si scatenava una tragedia nella tragedia, la cui tensione sadica era così evidente da risultare – per noi dello spettacolo – sconvolgente” (p. 103).

È un cortocircuito totale, esistenziale. L’imbattersi nell’attore che si finge morto è comunque un faccia a faccia con la morte, con la propria morte, innanzitutto; non quella futura e inevitabile, bensì quella attuale che ci attanaglia ora e qui, alla quale non sappiamo opporre resistenza, ribellione, sebbene potremmo rifiutarla e impegnarci a risuscitare.

Chi dunque è il morto, l’attore mendace o lo spettatore benpensante? E chi è il sadico sacrilego che tormenta i trapassati? L’infame realtà o l’infido teatro?

“Una volta o l’altra il teatro si mette a pensare, a provocare, a delirare; e si fa sadico, arcigno, oscuro, fedifrago. Signora, il teatro non è un’opera di bene: può dare affanno, pressione, sgomento e piedi piatti” (p. 105).

Se torniamo alle sue origini, il teatro (un “teatro della profondità”) ha lo scopo di “presentificare” Dio, di rendere attuale e tangibile il “senso nascosto” del divino.

E ciò a prescindere da ogni assunto teologico e dalla stessa esistenza o meno di Dio. Ma quale teatro? Fuori da ogni schema, da ogni scuola, da ogni schieramento ideologico, Perriera propende per un teatro equidistante da Pasolini e da Grotoswki, che fonda le istanze della retorica letteraria e della mistica corporea, che ribadisca la simbiotica “opportunità che la profezia della parola e la profezia del corpo concorrano a ricostituire nel teatro il punto di incontro dei più diversi linguaggi” (p. 198).

Col suo strabismo intrinseco che lo costringe sempre a guardare anche “da qualche altra parte”, Perriera tiene unite acrobaticamente, come un ilarotragico saltimbanco, le antinomie della città dolente e della scrittura salvifica, del teatro e della morte, del dio assente e della fede assurda, del fantasma edipico e della mostra inconsolabile orfanezza, della dolcezza e della determinazione, dell’utopia sognante e dl realismo impietoso, della vita e del romanzo.

L’arte stessa, perfino quella dell’introvabile avanguardia, è sempre una “tensione che corre tra Norma e Devianza, fra prigione e volo” (p. 182).

Questa dialettica zigzagante che ricuce le opposte ragioni e le riconduce al dialogo e all’ascolto è il solo modo per dare respiro a “una democrazia intensa, ribelle e mite” (p. 267) in cui la cultura si saldi finalmente ai bisogni popolari, si faccia memoria e insieme sperimentazione avventurosa, compia “un salto di qualità verso una differenza sconosciuta” (p. 268). Proprio come un canguro innamorato della vita.

1) Michele Perriera, Con quelle idee da canguro, Palermo, Sellerio, 1997
2) Michele Perriera, Marcello Cimino - Vita e morte di un comunista soave, Palermo, Sellerio, 1990