Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
06/09/2020 06:00:00

Un'appassionata mitezza. Per Michele Perriera, un acrobata sincopato

In questi sette giorni di interventi e di ricordi, fino al 12 settembre, sulle pagine di TP24 proveremo a ricordare la figura e la produzione di Michele Perriera. 

di Piero Violante

Volano di notte... che furbacchioni!

“Vengo, non so, vengo dalle carte, ritorno alle carte, riferisco, sono al tuo servizio, per così dire”. E’ una battuta de “Il Signor X” (1976) che mi ha sempre affascinato: per l’oggetto che l’abita: le carte; per il movimento che l’agita: vengo-torno. Penso che in questo movimento di andata-ritorno si celi la cifra segreta, la cellula generatrice della poetica di Michele Perriera. L’incessante movimento rimanda allo spazio: nello spazio scenico disegnato da Perriera nelle sue regie, a partire da “Morte per vanto” (1970), questo movimento vi è predominante. E’ il movimento dell’ansia, della riflessione dubbiosa, del lutto. E s’apparenta all’altalenare, al dondolio come al tentativo di levitare sulla gravità, sulla forza di gravità della scena del mondo. E’ un andare e venire il più delle volte sincopato, un singhiozzo spaziale: un singhiozzo del fisico che traduce altri singhiozzi, altre sincopi. Un singhiozzo a volte grottesco, caricaturale. Andare e venire, strisciando i piedi con esitazione, saltabeccando tra i buchi dello spazio, tra le voragini pronte ad inghiottirci. Un movimento alfine obliquo, distorto, strabico che evidenzia la falsità della linea retta, che sottolinea la problematicità di una meta lineare, razionale. Il movimento, come è giusto che sia in teatro, è metafora del tempo. Andare e venire dalle carte indica l’orizzonte meta-fisico, in senso letterale, del rapporto con il tempo. Non si procede, si va e si torna, e si ri-va e si ri-ritorna: come se la meta fosse raggiungibile dopo la rivisitazione del passato, e come se ogni meta diventata passato dovesse essere assorbita, ripassata, per non essere perduta. Lo strabismo fisico, l’obliquità fisica è strabismo e ubiquità temporale. Passatofuturo, memoriavvenire: sono per Perriera una sola parola bifronte. Con questo bifrontismo si è confrontata sin dall’inizio un’opera che sino alla sua ultima pagina ha costruito con accanita coerenza l’utopia della rimemorazione. E’ questa la parola-chiave per interpretare Perriera scrittore e drammaturgo; per interpretare uno scrittore un drammaturgo così singolare, solitario nel panorama siciliano. La forza di quel movimento così si irradia sui piani alti del rapporto con il tempo, con la storia, con la nozione di progresso, la cui efferata debolezza è il tema centrale di tutte le opere di Perriera, in particolar modo dei romanzi "A presto" (1990), "Delirium cordis" (1995),"Finirà questa malia?" (2004).

La forza di quel movimento è la cifra di un rapporto tra vita e scrittura come chiarisce il titolo di un libro di saggi: “La spola infinita. Dalla vita alla scrittura, dalla scrittura alla vita”(1995). Il libro sottolinea la necessità di questo pendolarismo obliquo che avanza ritornando.

Il primo saggio è una autobiografia intellettuale che inizia con l’esordio della scrittura. Una sorta di “scena originaria”: Perriera a quattro anni scrive al padre morto. La scrittura come espressione della mancanza ma non della dimenticanza: espressione di un desiderio non appagato che viene colmato dall’apparizione del padre che parla ad un bambino che non capisce. L’oscurità del senso di quelle parole che suonano all’orecchio di Perriera insieme straniere e familiari verrà chiarita – decide Perriera – dall’apprendimento del leggere e scrivere. E’ una decisione critica perché coniuga il versante della razionalità con ciò che razionale non parrebbe; che stabilisce la compresenza nel suo universo - a parità di esistenza - della necessità dell’apparizione con la necessità dell’apprendimento.

La letteratura irrompe a sette anni con “ Delitto e castigo”, un titolo suggerito dal portentoso intuito psicologico del fratello Giovanni, grande violoncellista. Cosa impara Perriera da Dostojevskij? Impara la plausibilità soggettiva del mondo; apprende che era possibile vivere intensamente senza rimuovere la sofferenza e che il ricordarla, il tenerla presente alla coscienza, restituiva alla vita il suo creativo bisogno di riscattarsi sempre e di nuovo. Ecco la radice dell’ universalismo etico della rimemorazione che accomuna Perriera a Walter Benjamin: la radice di una concezione del tempo in cui si estingue il debito del presente verso il passato: “Per quanto tempo ancora sarà lecito vivere a spese dei morti?” si chiede tutta l’opera di Perriera; la radice di un umanesimo post-moderno al cui centro si colloca “non l’Io, ma uno straccio di Io spogliato da ogni consolazione idealistica”. Scrive Perriera: ”Non smetterei di vedere all’orizzonte di questo umanesimo postmoderno il gusto della discrezione e il piacere delle differenze. Restando anche inteso che non si tratta – o non si tratta più – di avanguardia… non è lo stare sempre avanti che rende esplicite le differenze, ma quell’andare avanti e indietro che nel 1975, dando il titolo a un libro anche troppo passionale, definivo avvenire della memoria”.

Nel suo ultimo romanzo “I nostri tempi. Brevi note sulla nostra epoca” (2009), quel movimento si rattrappisce e sfida spesso soccombendo la gravità. L’io narrante barcolla ridendo di cuore, sbanda, spizzica, sbatte, perde l’equilibrio; qualche volta cade, poi s’arrampica. La caduta è spesso una piroetta, un volo in avanti come un uccello di carta. L’io narrante si definisce un acrobata sincopato, un guitto, un clown: vittima innocente e insieme vittima redentrice. Ecco. Il suo olocausto è una replica solo lievemente parodistica della Passione di Cristo. Nella scrittura di Perriera si sedimentano Baudelaire, Apollinaire; la sua iconografia è quella di Rouault dove riemerge cristianizzata una componente sacrificale e salvifica del clown ovvero dell’artista. “I nostri tempi” narra della Passio dell’artista. Del saltimbanco che non ha perduto il suo legame con il regno dei morti e che ha con gli animali un’amicizia complice. I saltimbanchi dice Apollinaire stanno in un terreno vago tra vita e morte, verità e menzogna, sono traghettatori, mediatori, psicopompi. Come Arlecchino. E Perriera scrive: “Mettiamo sul nostro orizzonte Cristo e Arlecchino”.

Cade si rialza cade sorride ride gli viene dato del matto. Tra riso e melanconia. Non ha detto Baudelaire e non ci ha mostrato Michele che riso e melanconia sono due modalità di reintegrazione di una perdita?

[Scritto in occasione di una serata a lui dedicata, al Teatro Biondo, il 25 settembre 2010, a due settimane dalla sua morte, avvenuta in un ospedale di Cefalù l'11 settembre.]