In questi sette giorni di interventi e di ricordi, fino al 12 settembre, sulle pagine di TP24 proveremo a ricordare la figura e la produzione di Michele Perriera.
di Guido Valdini
Che eredità ha lasciato? Che posto hanno oggi il suo nome e la sua opera nel teatro contemporaneo? Quanti giovani lo conoscono? A dieci anni dalla sua scomparsa queste domande restano sospese in un limbo nebbioso, perché è come se Michele Perriera fosse stato vittima di un processo di rimozione di cui se ne colgono fatalmente alcuni motivi: troppo pesante, impegnativa ed inattuale – in tempi di leggerezza, di stolida divagazione e di allegra socializzazione sul nulla – sembra oggi la sua lezione. E questo accade soprattutto nella sua città, Palermo, «capitale dell’eccesso» e metafora del mondo, suo campo prediletto d’indagine, che non ha mai voluto abbandonare.
Pure, questa apparente inattualità è in realtà bruciante attualità: in molto del suo teatro e della sua scrittura, Perriera avverte i rischi della sconfitta irreversibile dell’umanesimo. Ed in realtà, questa nostra epoca – accanto ad uno stupefacente progresso tecnologico che, se ci rende più confortevole la vita e ci offre un’eccezionale varietà di occasioni, ci porta anche a triplicare le difese – cosa possiede di gentile, di delicato, di affettuoso? Dove ritroviamo rispetto e sensibilità di parole, gesti, comportamenti? In che cosa verifichiamo profondità culturale e progettuale? Cosa facciamo per perdere l’abitudine alla vanità e ad un consumo sempre più superficiale e omologato? La brutalità del nostro tempo si può riassumere emblematicamente nell’universo della comunicazione: pochi istanti davanti ad un telegiornale, e alle immagini degli orrori di una guerra succedono quelle di splendide fanciulle in costume da bagno alla ricerca di una smagliante vacanza estiva. È la fotografia della decadenza di un’epoca di violente contraddizioni, frullatrice di pietà e d’indignazione. «Vorrei guarire il mondo dalla sua più odiosa malattia: l’abitudine al male», dice l’umano dio di Ritorno, testo in tre giornate scritto da Perriera tra il 1993 e il 1995.
E tutta la sua opera, fin dallo sperimentalismo degli anni ’60, guarda al mondo da un angolo di visuale spiazzante, con occhio lucido e appassionato che non teme di affondare la lama nella carne viva del dolore alla ricerca di un brandello di verità che possa restituire apprezzabile senso all’esistenza. I fantasmi della coscienza irrompono sulla scena a smascherare la violenza di quel potere efferato e seducente che domina le nostre vite e le confonde. Siamo in un universo tragico avvolto da un opprimente senso di panico onirico, dove catarsi e redenzione non sono date, e dove la messa in scena assume i contorni di un delirio parossistico.
Il teatro di Perriera, con ragionevole approssimazione, si può dividere in tre periodi: il primo, che chiamerei “d’incandescenza creativa”, raccoglie i suoi testi contenuti nei due volumi pubblicati da Flaccovio e dalla Fondazione Biondo, scritti tra il 1961 e il 1967, pochissimo o mai rappresentati, a parte la trilogia costituita da Morte per vanto (da Marlowe), Macbeth (da Shakespeare) e Le sedie (da Ionesco), da lui stesso messi in scena al Teatro Biondo, e il bellissimo radiodramma Il Signor X. Periodo che va dal 1970 al 1975. Il secondo, il più vasto, coincide con la nascita della scuola di teatro Teatès e comprende gran parte delle sue riscritture sceniche, sia di classici che di autori moderni (Molière, ÄŒecov, Feydeau, Sartre, Ionesco, Beckett, Artaud, Pirandello, Dürrenmatt, Pinter), passando per autori contemporanei (Malerba, Scabia, Testa, Porta, Falasca, Frabotta, Battaglia, Pes, Giordano, Maraini, Licata, Montemagno). È il periodo della “grande metafora”, dal 1981 al 1992-93. In questi anni scrive e mette in scena anche le sue opere: I pavoni (nell’83, poi ripreso nel ’98), Kean - Passione e seduzione (1987), Anticamera (1989), Dove hai lasciato la sua barca? (1990), Qui è quasi giorno (1991) e Ogni giorno può essere buono (1993). Anche se le ultime tre stanno a cavallo con il terzo periodo di Perriera, che chiamerei “apocalittico”. Di quest’ultimo fanno parte Dietro la rosata foschia (scritto nel 1992 ma messo in scena nel 2000), Ritorno (mai rappresentato), i testi tratti da Gli atti del bradipo (pubblicati nel ’98 da Sellerio): Il polverone (2004), Ti ricordi? (2004), Injury time (2004, tutti messi in scena da altri registi), Buon appetito (2004, con la sua regia); e infine Pugnale d’ordinanza (2005). L’ultima sua regia è datata 2007 ed è Come, non lo sai? (2007). Non escluderei che lo stacco che precede il periodo “apocalittico” sia stato causato dal profondo turbamento provocatogli dalle stragi di mafia del 1992. Mentre la limitata produzione teatrale degli anni Duemila si deve soprattutto al suo quasi esclusivo dedicarsi alla narrativa, alla difficoltà di reperire finanziamenti per gli spettacoli, oltre che, alla fine, per l’insorgere della malattia.
Per quanto riguarda le riscritture registiche di Perriera – di cui rimane traccia soltanto nelle sue brevi note di regia, nelle recensioni sui giornali e nella memoria degli spettatori –, viste nel loro insieme, esse costituiscono un importante sforzo di approfondimento del teatro del Novecento. Come un esploratore con la lanterna strabica, Perriera s’inoltra nel grande rinnovamento drammaturgico europeo col suo taglio personalissimo che punta ad estremizzare le singole poetiche ed il loro sguardo su una condizione umana in profonda trasformazione. Una rilettura inconsueta di questi autori che ha affrontato mettendone in luce alcune angolazioni nascoste e più congeniali alla sua sensibilità. Che fosse seducente salotto pseudoborghese o desolato deserto battuto dal vento, lo spazio degli spettacoli di Perriera era costantemente sospeso fra i tremori dell’attesa e la pausa del respiro, regno di una temperatura allucinatoria nella quale esasperata gestualità e allusività di parola davano vita ad un teatro di fascinazione barocca, orchestrato da un inflessibile ritmo interiore. Per questo, quasi sempre, il battito atmosferico era quello di un thriller in cui mancava l’assassino.
Al simbolismo rappresentato da un incombente animale di «imperscrutabile tenerezza», Perriera affida l’ultimo suo teatro, il più fantascientifico, generoso e misterioso, quello degli Atti del bradipo, nei quali, in un mondo oppresso da un’autorità invisibile ed efferata, i resti di un’umanità provata tentano di avviare una sorta di moderna palingenesi.