«Sia il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno». È un versetto celebre del Vangelo di Matteo che rivela la necessità e l’esigenza di essere chiari e netti nelle proprie posizioni e nelle proprie azioni. Una necessità e un’esigenza più volte testimoniate dal vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, che pochi giorni fa, in aperto conflitto con la politica di respingimento dei migranti attuata dal presidente Nello Musumeci, ha dichiarato: «È tradimento del Vangelo diventare accoliti di chi pretende respingimenti, rifiuto di soccorso, discriminazioni razziste».
Oggi il vescovo, con il vaticanista Fabio Zavattaro, sarà ospite della prima giornata del festival 38° parallelo – tra libri e cantine. L’evento comincerà alle 18.30, nell’Atrio del Comune di Marsala. Il titolo della conversazione: “Comunità laiche”.
Abbiamo chiesto a monsignor Mogavero di anticiparci alcune sue riflessioni.
Avvertiamo una forte crisi del concetto di comunità: dove rintracciarne l’origine?
La crisi della comunità, in fondo, è la crisi della relazione. Perché se io non sono in condizione di aprirmi all’altro, di accettarlo, di dialogare con lui, evidentemente non riuscirò nel piccolo a creare i presupposti di una espressione di convivenza molteplice quale quella della comunità. Forse più che in altri tempi, oggi c’è uno spiccato soggettivismo. E c’è un modo di coltivare il rapporto con gli altri che privilegia l’isolamento: dal mio cellulare posso raggiungere chiunque e la mia relazione è una relazione virtuale, sì, ma è non virtuosa, perché non coinvolge gli altri, ma coinvolge me, e gli altri solo di riflesso. È la crisi del dialogo, dell’incontro, dell’accettazione dell’altro come diverso.
Negli ultimi giorni abbiamo letto delle sue posizioni contro la politica di respingimenti del governo Musumeci. Ritornando sul tema della comunità, ci interesserebbe chiederle: una comunità è una comunità se ha dei limiti, dei confini invalicabili?
Le comunità sono espressione della ricchezza di coloro che le compongono. Se le comunità sono fatte di persone che hanno semplicemente la preoccupazione di difendere quello che hanno, e non tanto quello che sono, è chiaro che non c’è nessun altro che può entrare nel giro della relazione e del vivere comune. Se, invece, le persone sono capaci di guardare oltre e di vedere che l’altro non è né un nemico né un antagonista né un concorrente, perché l’altro è uno come me, l’altro è me stesso, è immagine di me, allora si riesce a creare una circuitazione di relazioni per le quali la diversità, la povertà, la domanda di aiuto, non vengono viste come atti di guerra, ma come dinamiche all’interno delle quali ciascuno si pone dando e ricevendo quello che reciprocamente ci si può scambiare.
Com’è possibile contrastare questa propensione all’antagonismo e alla diffidenza?
Bisogna cambiare il modo di guardare tutto ciò che è al di fuori di noi. Intanto, non considerarci ciascuno il centro esclusivo dell’universo, soggetto di diritti e di privilegi e di dinamiche che escludono gli altri. Poi, cercare di individuare nell’altro l’immagine di colui che essendo come me ha le stesse mie attese. Piacerebbe a ciascuno di noi essere rifiutato, rigettato, essere considerato un elemento di disturbo rispetto al resto dell’umanità? Come vorremmo essere trattati così dobbiamo trattare: quello che gli altri volete che facciano a voi, fatelo voi a loro. È la legge aurea, è la legge del Vangelo, ma è una legge dell’umanità tutta, non è una legge di tipo confessionale.
Dalle opposizioni di destra spesso sentiamo dire: se la Chiesa è così aperta sul tema delle migrazioni, perché non se ne fa carico?
Chi dice che non lo facciamo? Quante persone ospitiamo? A quante persone diamo aiuto e soccorso? Tra quelli che hanno bisogno, e non sono tra quelli che vengono da fuori. Nei nostri tempi, chi si cura degli ultimi del nostro Paese? Chi si cura dei nuovi poveri, dei disoccupati, di coloro che non hanno speranza? Chi si occupa di dare un pezzo di pane a chi non ha da acquistare il minimo indispensabile? In questa pandemia abbiamo visto moltiplicati in maniera incredibile i numeri di coloro che hanno chiesto questo tipo di soccorso materiale. Ci si dice che quello che noi facciamo è un incentivo al commercio umano, ma stiamo scherzando? Si parla di cose che non si conoscono. Noi non incentiviamo né gli scafisti né il commercio umano. Diciamo che quando c’è qualcuno da soccorrere, bisogna soccorrerlo e soccorrerlo bene.
Quali sono le attività che opera la diocesi di Mazara?
Nel nostro piccolo – noi siamo una piccola diocesi – le nostre parrocchie si dedicano all’attività di solidarietà che coinvolge tutti, a prescindere dalla origine, dalla provenienza e dal credo. Poi abbiamo degli esempi di case di accoglienza, luoghi nei quali si esercita quella prossimità che dovrebbe essere alla portata di tutti. Il problema è molto grande: sarebbe bello, e di questo dovremmo farci promotori, ma non ci ascolta nessuno, di un patto umanitario nel quale tutte le realtà presenti, istituzionali e non, le organizzazioni non governative, i sindacati, il mondo del lavoro, il mondo della cultura, si mettessero insieme per approntare una soluzione al problema. Sono anni che la politica assiste inerme al problema della migrazione e non fa nulla per risolverlo. E parlo di politica regionale, nazionale e internazionale. Se non ci si muove con gli strumenti adeguati, è chiaro che non si va da nessuna parte.
In quel caso si ritroverebbe un punto di contatto tra le istituzioni e la Chiesa.
Sì, si tratta di avere delle idealità comuni. Poi le strategie si trovano. Ma se si continua a considerare la migrazione una realtà da affrontare come una punizione del nostro tempo oppure una sciagura o un fenomeno da fermare con tutti i mezzi, allora non possiamo sederci allo stesso tavolo, perché non abbiamo nulla in comune da dirci.