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11/09/2020 06:00:00

Un'appassionata mitezza. A mio padre

Oggi è il decimo anniversario della morte di Michele Perriera, lo ricordiamo con un testo di Giuditta Perriera. Il nostro speciale, che ha indagato la figura e la produzione del drammaturgo palermitano, proseguirà fino a domani.

di Giuditta Perriera

Com’è difficile scrivere di un padre. Se penso a un padre penso all’origine del mio cammino. Se mi rivolgessi alla madre direi subito e prontamente: ti voglio bene. Il cordone che ci lega a loro dalla nascita ci permette qualsiasi confidenza. Ma un padre… Un padre, lo conosci solo durante la strada della tua vita. Si insinua piano piano e da lontano. E’ come il picco di una montagna a cui aspiri di arrivare. Lassù, in cima, si trova l’orizzonte della tua vita e raggiungerlo a volte sembra un’impresa. E’ il primo uomo di cui ci si innamora ed è anche l’unico che non si smetterà mai di amare. Così, penso a mio padre. Come all’origine dei sogni e la conferma che io esisto ed esisto come volontà, come scelta. Libera e gioiosa scelta. Questo ho sempre pensato che volesse dirmi e mostrarmi, silenziosamente, mio padre. Ma mio padre, per me, non è stato solo un genitore. E’ stato il mio Maestro d’arte. Colui che ha portato fuori il mio talento e se n’è preso cura. E l’arte per lui, era ciò che lo identificava meglio come persona. Della devozione all’arte lui ha fatto la sua vita. E ogni persona che ha incontrato nel suo cammino o che si avvicinava a lui non poteva considerarlo al di fuori della sua inguaribile devozione. Tutte le persone, senza disparità alcuna. Compresi i figli, dunque.

Io lui me lo ricordo ancora col segno di una biro che gli portavo come dono, bussando alla porta del suo sacro studio, avvolta in un foglio di quaderno. Passava ore ed ore, dietro ad una scrivania, a scrivere e riscrivere, nel più assoluto silenzio o col sottofondo di una musica classica. Ricordo il suo vistoso callo al dito medio della mano destra. Quello dove si poggiava la sua instancabile penna. Per tanto tempo, quando ero ancora una bambina, credevo che quel callo fosse un segno magico. Come una predestinazione. Qualcosa che solo lui doveva e poteva possedere. Ma ricordo anche un meraviglioso aperto sorriso, che chiedeva il mio bene. E due braccia che si allungavano verso di me. Dovremmo poter credere che sia sempre possibile avvicinarsi a qualcuno ed essere accolti. “Vieni ad abbracciarmi, bambina”. Bambina, mi chiamava, anche quando ormai ero una donna adulta. E’ così, il mio essere adulta, ancora oggi, non ha mai smesso di coltivare la parte più fanciulla di sé.

Chi era mio padre. Per me, intendo. Me lo ricordo sempre circondato da tanta gente, giovani e meno giovani. Febbricitanti ed entusiasti. Sì, credo che lui riuscisse ad entusiasmare alla vita. Rideva. Rideva forte e chiaro. Una risata trascinante. Indimenticabile. Insieme ad un parlare deciso e ad un timbro di voce dolcissimo. Ed è strano, se si pensa che era una persona malinconica e solitaria. Eppure, chi si avvicinava a lui, si entusiasmava alla vita. Cominciava a progettare e ad idearne una propria, complessa ma eccitante. Lui sembrava distante e insieme attento ai pensieri degli altri. I suoi occhi strabici, forse, gli consentivano di osservare senza essere invadente. Così, almeno, io immaginavo. Di certo, aveva la capacità di comprendere lo stato d’animo degli altri senza che neanche parlassero. Di certo, ti spingeva ad aprire il cassetto dei segreti e ad armarti della necessaria consapevolezza per affrontarli. A non demordere e a non nasconderti. Nel bene e nel male. E’ per questo che credo fosse inevitabile, per uno come lui, abbracciare il teatro. Questo contorto e meraviglioso mondo dove ogni cosa e personaggio, ogni parola e gesto, devono, per essere teatro, entrare dentro e trasfigurare la realtà. E per fare ciò, occorre necessariamente passare dal dolore e dal rigore con se stessi, prima ancora che con gli altri. E lui non celava né l’uno né l’altro. Ma l’orizzonte, in ultimo, era quello di una liberazione fantasiosa e gioiosa.

Mi ricordo com’erano le prove a teatro con lui. Una fatica immensa ed entusiasmante, al tempo stesso. La paura di non farcela e la certezza che, al fondo, si sarebbe arrivati alla meta. Ancora una volta, uno sguardo presente e insieme lontano. Lo stesso sguardo che ci consente, nella vita, di mantenere la speranza. Di sognare in grande. Di affrontare le difficoltà che la vita, inevitabilmente ci pone. Lo stesso sguardo che io e lui condividevamo e che io esibivo con teatrale indifferenza. Per essere notata, naturalmente. Come chi fugge per vedere se gli si corre dietro. Ma lui non correva dietro. A niente e nessuno. Lui stava accanto, casomai. Lui c’era, comunque. Anche quando pareva non ci fosse. Non era tipo da fare sconti né sul lavoro né nella vita. Non ne faceva neanche a se stesso, d’altronde. Ma ha sempre avuto una delicatezza straordinaria verso chi soffriva o era fragile. Mi emozionò tantissimo, subito dopo la sua morte, ricevere tante mail di persone, che neanche conoscevo, allievi delle scuole dove insegnò nel periodo di quando faceva il professore di italiano. O allievi dei suoi corsi di teatro. Tutti avevano riconosciuto in lui una sorta di padre/fratello, di guida alla scoperta del vero sé. E tutti ricordavano come lui li avesse accolti senza giudizio. E li avesse spronati a cercare la parte migliore di sé. A riconoscersi e comprendersi. Ho amato e amo mio padre per come mi ha insegnato ad amare la vita, ad appassionarmi ad essa, senza voltare le spalle al dolore. Senza negarselo.

Chiedo scusa a chi legge, se mi sono lasciata trasportare dal mio sentire. Io ho conosciuto un uomo e un padre tenero e rigoroso, triste e pieno di vitalità, accogliente e solitario, attento e distratto, creativo e ostinato, appassionato e misterioso, vecchio e bambino. Padre e figlio.

Se tu fossi qui continuerei a guardarti sfuggente, come sempre. Ma dentro sorriderei, come sempre. L'incanto è tutto qui: nel ritrovarsi pieni di gioia mentre si fugge via.

Cosa posso regalarti per questo tuo decimo anniversario dalla tua assenza? La biro avvolta nel foglio di quaderno, come facevo da bambina, non ti servirebbe più. Avrai piume di nuvole da intingere nel blu del cielo ora. Il solito dopobarba neanche. Ci sarà il profumo dei tulipani e dei tuoi girasoli attorno a te. Un orologio con cinturino in pelle allora, ti piacevano tanto gli orologi! Ma che senso avrebbe ricordarti un tempo che tempo più non ha. Avevo pensato anche ad una polo azzurra ma non so più se la tua forma è quella di un bambino o di un uomo col cappello di Magritte. Le sigarette? Adesso potresti fumarle di nuovo credo. Non possono farti più del male. Niente può farlo più. Ma faranno ancora parte dei tuoi desideri? Non conoscerli ora è la pena più grande per me. Ci sono! Una cassata siciliana. Si può mangiare lì dove sei? La musica, ecco. Forse quella viaggia ovunque, anche da qui a lì. E’ un peccato davvero che tu non ci sia per questa strana festa. Ti sarebbe piaciuto raccontarti ancora per un anno. Accenderò la suite no. 1 di Bach a tutto volume, eh? Qualche nota si perderà nell’aria e arriverà dove non so. Fingiamo che vada bene così? Ma sì! Fingiamo. O, come meglio sarebbe piaciuto a te: trasfiguriamo. Vedi? Sono sbilenca ma non smemorata. Porterò una rosa blu al tuo freddo simulacro e ti dirò soffiando in segreto del mio dolore mentre intanto ti scrivo una lettera febbrile e brillante e la imbuco senza destinazione con assurda ostinazione accarezzandone l’illusione e quando tornerà indietro che disdetta la prenderò lacrimosa e giocosa come una primitiva controdanza al mio capriccioso eterno aspettare tu ne sorriderai mi tuffo ad agosto con il cappotto a mare se non è vero! Tutto d’un fiato, sì.

La vita e le sue inevitabili mancanze scorrono fino alla fine e alla fine non c’è fine se non la conosci. Continuiamo dunque, da un bacio sospeso, un abbraccio vissuto, uno sguardo strabico, un’eco di risata, una voce registrata, un braccio sollevato all’orizzonte e una mano che ti saluta da lontano.