di Lavinia Spalanca
Il luogo comune secondo cui la forma è sostanza vale particolarmente per l’ultimo libro di Nino De Vita, l’auto-antologia Il bianco della luna, pubblicata dalla casa editrice Le Lettere con prefazione di Emanuele Trevi. La casta ed elegante impaginazione grafica prelude infatti alla sobrietà ed al rigore della pronuncia poetica, che mira all’essenziale, e al contempo prepara il lettore ad uno dei tanti personaggi della silloge, quella luna leopardianamente scrutata nel suo biancore latteo, scoperta dalla meraviglia del fanciullo, con echi di pirandelliana memoria, e infine patita dalla perturbante apparizione del licantropo, stravolto dal suo sorgere. Non una natura rassicurante e consolatoria, ma partecipe dei tormenti dell’uomo - «tuttu ’u munnu si rruri» - in parallelo con una concezione poetica che mirabilmente fonde tradizione e innovazione, familiarità e inquietudine, come ben riconosciuto da Trevi nello scritto iniziale. La naturale predisposizione al racconto «compromesso con l’oralità» s’intreccia in De Vita alla coscienza moderna dell’arte del racconto. E questo miracolo della scrittura, di sicuro impatto sul lettore, è reso possibile proprio dalla coralità del “noi” narrante – ci si passi il termine – che sospendendo l’autorialità accoglie al proprio interno la responsabilità del lettore nella decifrazione del senso, mai dato per certo ma lasciato in un’infinita vaghezza. Il risultato, che l’antologia esemplarmente dimostra, è una narrazione in versi che sa essere senza tempo e insieme aperta ai rovelli esistenziali della modernità. Dai fotogrammi di una natura palpitante alla narrazione filmica di uomini e luoghi, al teatro memoriale dell’autore e di un’intera collettività, il protagonista di questo viaggio è sempre Cutusìo, «natio borgo selvaggio» e centro di gravità permanente, mai idillico però ma latore di ammaestramenti spesso dolorosi, dove vita e morte coabitano in un intreccio indissolubile.
L’esordio in lingua con Fosse Chiti, le fosse cretose della sua terra assolata, anticipa i temi e gli stilemi della successiva trilogia composta da Cutusìo, Cùntura e Nnòmura, a cominciare dall’immersione in una natura antropomorfizzata, che langue e resiste, deperisce e combatte, si tinge di pallore all’imbrunire o di sfolgoranti chiazze di luce, una natura pascolianamente colta con occhio di naturalista, all’insegna di un sublime d’en bas antidannunziano (come la pioggia che cade, prosaicamente, sui frutti dell’orto, «batte sulle foglie / ampie delle zucchine … e sul sedano, / sui fusticini eretti / del peperone… »); a restituirne i battiti è la perizia stilistica delle anastrofi («negli angoli la trova / dell’orto»), degli iperbati («è caduta, battendo, l’acqua») e degli enjambement («e in alto una finestra / piccola con la grata»). Ma col passaggio al dialetto l’espressività s’intensifica, raggiunge l’apice dell’intensità fonica, senza per questo cedere ai ricatti del realismo, tant’è vero che, come nella favola di Martinu che vede la luna senza guardarla perché «avia / l’occhi astutati», lo scivolamento dalla vista alla visione, dal reale all’onirico, dal fantastico al meraviglioso, s’impossessa del racconto affatturando il lettore, lasciandolo «allallatu» per quell’aura metafisica che circola indisturbata, e che l’illustrazione di copertina di Giuseppe Calandriello ci restituisce con sorprendente simmetria. Il mondo di De Vita, tuttavia, è tramato di disarmonie, la natura è in uno stato di perenne souffrance, la campagna distesa somiglia al campo di grano con corvi di Van Gogh («Ncapu ri niatri, i corva / stàvanu mpinti, nìvuri, / nnall’aria)», e qui si sente l’eco della lirica di Sciascia, di cui per primo ha parlato Massimo Onofri. Basti pensare a questi versi de La Sicilia, il suo cuore - «Non un lento carosello di immagini, / una raggiera di nostalgie: soltanto / queste nuvole accagliate, / i corvi che discendono lenti; / e le stoppie bruciate, i radi alberi / che s’incidono come filigrane» - per sentire l’eco di una Sicilia diversa, non miticamente intesa ma ruvida ed aspra, vero paesaggio novecentesco. A puntellare questa sinfonia naturalistica è il ritmo vorticoso degli animali, che con i loro «gghiri / e vvèniri», «firrii e mmuntati, / scinnuti e zzichiniati» partecipano dell’effimera temporalità che investe l’uomo. Ancora una volta tradizione e modernità si fondono, la voce familiare e affabulante del cantastorie e l’inquietudine del poeta che orchestra la narrazione. Alla coscienza della precarietà si associano l’ossessione memoriale e l’ansia catalogatrice (come esemplato dal titolo della silloge Nnòmura), il che si accompagna alla ricerca lessicale dell’autore (a faccifrunti / faccia a faccia; onnumani e onnumani / l’indomani e l’indomani / bbagghi bagghi / per i bagli) e all’esigenza ordinatrice, all’insegna della circolarità interna e della continuità tematico-strutturale.
Vero punto di svolta, o di rottura, è la silloge Òmini: l’ingresso nella storia, la partenza da Cutusìo e l’approdo a Palermo durante gli anni universitari siglano il passaggio dal bildungsroman – il romanzo di formazione inscritto nella citata trilogia in dialetto – al künstlerroman – il romanzo di formazione dell’artista. Ai maestri cantastorie della contrada nativa si associano i maestri dell’arte del racconto – da Sciascia a Bufalino a Consolo, da Antonio Castelli ad Angelo Fiore a Ignazio Buttitta – grazie alle cui conversazioni, ai libri letti, agli incontri nelle gallerie d’arte, Ninuzzu, u «figghiu ru zzi’ Cicciu De Vita» diventa, finalmente, Nino De Vita. È forse il destino di ogni artista, con un piede nella tradizione e lo sguardo proteso verso la modernità, e quel passaggio di consegne ricorda ad esempio l’analogo apprendistato narrato nell’autobiografia di Dario Fo, che dai maestri “frottolanti” del suo paese natio, la dimora lacustre di Porto Valtravaglia, approda un giorno alla Milano di via dei Fiori Chiari, culla dello sperimentalismo. Protagonista di Òmini è infatti Palermo: caotica e creativa, trafficata e ospitale, mafiosa e intellettuale, una città emblema dove si esplica la visività del narrare devitiano, dal ritratto dal compaesano «Cinchedda», affabulatore nelle notti insonni all’albergo Orientale, ch’«addumava ’u sicarru c’un bbigghiettu, / ciuciànnu abbuttatizzu», al carrozziere «curtu, nziccutu, cu i capiddi / rrizzi, una tuta lorda, / un occhiu straviatizzu». Qual è, allora, la funzione di questa carrellata di favole, parabole e historie, di questo cinema di parole, di questo teatro della memoria? Lo stimolo d’origine, per dirla con Ungaretti? Semplice, è il bisogno di eludere il tormento, perché quando il poeta entra «nno strurimentu» allora si squaderna la solitudine, sua e del mondo, e l’unico conforto, l’unico approdo, non possono che essere i libri:
I libbra stannu fermi / ma rintra hannu una vita / ch’i macina: cci sunnu / ’i cinchedda, i sbintati, i luparini; / i torti, i macanzisi; / alivoti cci sunnu ’i nannalau, / ’i scarafuna, l’òmini squaquègnari,’i ngazzati, l’eroi / cci su’ nzivati tinti / nne cantunera bbianchi / ri fogghi, cc’è u silenziu, / cci su’ ncuttumi, i tuppulìi ru cori…
Vero e proprio componimento metaletterario, che affonda le radici in una tradizione millenaria – si pensi alle liriche di Cavalcanti dove le dramatis personae sono il testo stesso e gli strumenti della scrittura – e che nella poesia in dialetto trova soltanto un antecedente illustre in Salvo Basso, che amoreggia con la Musa e sente i fogli come figli («Autri voti pensu / Ca stu fogghiu / È / Mmo figghiu») ma che con le parole instaura un corpo a corpo da cui uscire stremati («Bbasta / Ccù fogghi / E ppenni e / Llapis // Arripusamuni npocu»), I libbra allegorizza la concezione devitiana della creazione, unico esorcismo contro gli agguati della solitudine e lo spauracchio della morte. Le parole che salvano ma non per dar voce a sterili sfoghi individualistici – come farebbe la buffa maschera di Libberanti («Ri mia vulissi riri … chi … sugnu sempri sulu») - ma che dall’auscultazione di sé, vera e propria autobiologia, ci consegna un ritratto dell’umanità intera, coi suoi tormenti, le sue inquietudini, i suoi dolori, ma insieme con l’inesauribile bisogno di raccontare.
[Il ritratto fotografico di Nino De Vita è stato scattato da Angelo Pitrone]