di Lavinia Spalanca
«L’Italia – come dice William Kentridge - usa il proprio passato glorioso come scusa per nascondere un presente imperfetto». Non possiamo che essere d’accordo con l’artista sudafricano. È indubbio, infatti, che la perfezione sia passata di moda, quella condizione che Sant’Agostino identificava con l’essere giusti (De perfectione iustitiae hominis) e che in un’epoca come la nostra, che ammette facilmente l’errore sino a giustificarlo e fomentarlo, ha scarso diritto di cittadinanza. A fargli eco è il Dante del Convivio, che apparenta la perfezione alla nobiltà di spirito, e il suo contrario all’assenza di valore: «tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile». L’umana perfezione, inoltre, sembra coincidere in Dante con la ragione, laddove il vivere «secondo senso», affidandosi cioè all’istinto, ne pregiudica il raggiungimento. Come ci si avvicina allora alla perfezione? Coltivando la vita contemplativa, superiore alla pur auspicabile vita attiva (e civile). È evidente come le sue argomentazioni riflettano lo spirito dell’epoca, un Medioevo centrato sulla dimensione religiosa e speculativa, ma è indubbio che le sue tesi si rivelino tristemente attuali, in un tempo come il nostro in cui l’elogio del pragmatismo, dell’attivismo funzionale soltanto al culto del denaro, anziché produrre progresso ed efficienza, benessere e libertà, si è inoculato il virus della pandemia perpetua.
Poste queste premesse, chiediamoci in cosa consistano la perfezione e il suo contrario e, soprattutto, perché la seconda abbia preso il sopravvento sulla prima. Secondo Aristotele è perfetto ciò che è compiuto, ossia ciò che ha raggiunto il proprio fine. Si potrebbe obiettare, come farà Montaigne, che sia piuttosto da “coltivare l’imperfezione”, a partire dalla consapevolezza dei propri limiti, come ricchezza per orientare sul mondo uno sguardo relativista. Insomma, alla perfezione in senso dogmatico – col rischio di pericolose derive xenofobe come il concetto di razza superiore e ‘perfetta’ – andrebbe privilegiato ciò che è imperfetto e, dunque, unico e originale. Mi viene in mente una serie di paragoni, dallo sfumato leonardesco al non finito michelangiolesco, sino all’improvvisazione nel jazz, alle disarmonie di certa musica sperimentale novecentesca. Per non parlare della dialettica finito-infinito in Leopardi, all’ostacolo visivo della siepe come punto di partenza per inesauste avventure immaginative. Esiste però un ulteriore, e ahimè meno nobile, concetto d’imperfezione, più vicino all’esperienza di noi contemporanei: l’imperfezione come magagna, difetto, stortura, come nel provenzale «maganhar» che significa appunto mutilare, storpiare.
L’impressione attuale è che l’imperfezione, intesa come stadio iniziale per successive evoluzioni, sia stata rimpiazzata dalla resa senza condizioni alla magagna, anzi, in un’indulgenza plenaria verso i difetti propri e altrui. C’è da chiedersi il perché di quest’involuzione storica, che coincide con la rinunzia al cambiamento, con la sconfitta di ogni utopia, con la consegna alla precarietà più assoluta. Anzitutto il diktat della velocità, che dalla sfera economica – l’accelerazione dei processi produttivi – si è trasferito a quella esistenziale, con risultati insoddisfacenti e, appunto, imperfetti. Essere multitasking – mentre digito sulla tastiera parlo al telefono con l’amica e contemporaneamente guardo un video – significa soltanto commettere errori a dismisura (e se la suddetta creatura multitasking è segretaria di uno studio medico, con esiti spesso angoscianti per il malcapitato paziente). La fretta, si sa, è cattiva consigliera, ma recentemente è anche foriera di menzogne e mistificazioni, vedi le tesi di laurea montate con un rapido copia e incolla da internet, senza il minimo controllo delle fonti citate – spesso a sproposito – o, nei casi peggiori, l’edificio costruito con la sabbia e spacciato per resistente, che nel giro di pochi anni mostra i suoi paurosi difetti strutturali. Velocità, fretta, improvvisazione non spiegano però la tolleranza nei confronti dei nostri vizi, soprattutto di noi italiani, secondo l’assunto: “siamo fatti così, che volete farci?”. C’è un’altra motivazione, ancora più profonda, ed è l’impotenza. Impotenza come incapacità di agire e di incidere sulla nostra e sulle vite altrui. Politica, giustizia, sanità e scuola pubblica, burocrazia, sarebbero tanti i campi in cui si esplica con sempre maggior difficoltà la libertà d’azione del cittadino, anche se si trattasse ‘soltanto’ della libertà di parola. Una volta l’intellettuale era preso sul serio, oggi il termine è sinonimo di fallimento economico ed esistenziale, e così alcuni pseudointellettuali si sono ritirati in buon ordine per sfuggire alla delegittimazione pubblica, ma col rischio, però, di rendersi complici di quel sistema di potere che avrebbero dovuto contestare. Il tradimento dei nuovi chierici, come scrive Tomaso Montanari, non è che l’accettazione di quel reale con cui dovrebbero invece polemizzare (anche a costo di farsi profeti inascoltati, come l’ultimo Pasolini). All’impotenza, dunque, all’incapacità di cambiare le cose, si reagisce con l’adeguamento passivo o, addirittura, compiaciuto alla realtà effettuale.
Rassegnarsi alla precarietà, all’obsolescenza programmata di una società che ha innalzato il vessillo dell’imperfezione? Tornando a Dante, l’unico antidoto è continuare a vivere secondo ragione, ossia con consapevolezza e spirito critico, coltivando una sana indignazione e, almeno, tentando d’immaginare una realtà alternativa. Non foss’altro perché l’immaginazione, e la polemica, ci rende più vivi e vitali.